GENOVA — Per la seconda volta in tre anni l’alluvione ha colpito Genova, ed ha colpito le stesse zone che colpisce da sempre. La sera dell’alluvione, giovedì, eravamo a cena fuori con alcuni amici. Ci siamo resi conto che la pioggia era diventata troppa e quindi abbiamo provato a gestire il ritorno a casa in modo che non fosse rischioso per nessuno.
Alcuni di noi, usciti dal locale per tempo, sono andati verso casa con i propri mezzi o con l’autobus. Ci è stato subito evidente che eravamo abbandonati al nostro destino: uno di noi era sull’autobus e doveva passare a Brignole, seconda stazione di Genova in pieno centro, ma nessuno ha fermato l’autobus che si è trovato sommerso dall’acqua tanto che per non nuotarci all’interno i passeggeri si sono dovuti mettere con i piedi sulla parte alta dello schienale dei sedili. Un’altra amica abita sopra il torrente Fereggiano, che ha provocato vittime durante la scorsa alluvione e che è esondato anche stavolta. È rientrata a casa e nessuno l’ha fermata, il fiume stava già uscendo dagli argini ed è passata per miracolo.
Insomma, il primo segnale e sentimento palpabile tra la gente di Genova è stato quello di esser stati abbandonati, di non esser tutelati, di non essere aiutati. Perché le autorità non possono fermare un evento naturale, ma devono far sì che la popolazione sia avvisata per tempo su possibili pericoli.
Appena capito quello che stava succedendo abbiamo creato un gruppo su WhatsApp e ci siamo detti che il giorno dopo l’unica cosa da fare era scendere in strada ad aiutare. Alcuni venivano dall’esperienza bellissima di tre anni fa, altri li abbiamo invitati ad aggregarsi. Quindi venerdì pomeriggio, sotto indicazione di un amico negoziante conosciuto durante la scorsa alluvione, siamo andati a sgombrare dal fango una piazzetta. Come noi altre migliaia di ragazzi hanno avuto lo stesso desiderio, quello di fare del bene, di rendersi utili. Le facce delle suore di Sant’Agata, che avevamo aiutato tre anni fa e che hanno riperso tutto, vedere come ci ringraziavano e come erano stupite di noi dà significato anche ad una sventura così.
Il giorno dopo abbiamo sparso la voce e ci siamo ritrovati di primo mattino, eravamo tanti di tutte le età e di tutti i tipi. Liceali minorenni, universitari, giovani lavoratori, ingegneri disoccupati, lavoratori di lungo corso. Da Genova, ma anche da Rapallo e Chiavari il voler fare del bene è contagioso. Siamo andati a Borgo Incrociati, dove si è registrata la vittima. Un borgo pieno di artigiani, commercianti, cantine, che è stato sommerso da due metri e mezzo di acqua e fango. Una scena davvero incredibile, considerando che sono zone frequentatissime, vicine allo stadio per intenderci.
Ebbene ci siamo messi ad aiutare, ragazze e ragazzi che portano via mobili e fango fino alle vie principali dove un trattore li caricava e li gettava in container. Bellissimo condividere fatica, sorrisi con le persone al borgo, scambiare due parole con chi ha perso tutto e vedere in loro la gratitudine nei nostri confronti e la rabbia verso chi è pagato per aiutarli e sta a guardare.
Perché bisogna dirlo, se non ci fossero gli “angeli del fango”, che non sono altro che ragazzi e non, mossi da un bene, la città sarebbe davvero in ginocchio e le persone che hanno perso tutto sarebbero disperate. Perché non c’è un poliziotto, un carabiniere, un militare che sia in mezzo al fango a dare una mano, ma tutti li a guardare con la divisa immacolata. E questo la gente lo vede e si arrabbia. La disorganizzazione è grande, tutto è in mano ai volontari e non c’e nessuno che coordini le operazioni.
Il terzo giorno, domenica, ci siamo ritrovati dai Marmisti a Staglieno,vicino al cimitero cittadino, una zona con presenza di commercianti e abitanti dove il fango era a livelli mai visti. Dopo tre giorni c’erano ancora almeno 60 centimetri di fango per le vie. Ci saranno stati centinaia di ragazzi, indaffarati ad aiutare, il coordinamento lasciato al caso.
Ecco, da questi giorni io esco ancora più desideroso di rimboccarmi le maniche e di coinvolgere quante più persone ad andare a dare una mano, perché ogni sera torniamo a casa sfiniti ma felici, con negli occhi lo sguardo del vecchietto che ha perso tutto, del commerciante che ti ringrazia e che ti offre il pranzo, del vicino di casa che ti porta il caffè, del tuo amico con cui hai lavorato e dello sconosciuto che hai aiutato a portare un mobile fuori dal fango. Penso che bisognerebbe imparare da questa gratuità incontrata, dalla fierezza di tanti ragazzi nell’aiutare, che l’essere umano è fatto per queste cose, è fatto per amare e per fare del bene.
Inoltre ci scopriamo con la felice consapevolezza che la nostra generazione di giovani, etichettati come smidollati, le stesse persone e ragazzi che vanno a scuola svogliati, che non studiano, che non lavorano, sono quelli che stanno rimettendo in piedi Genova, sono quelli che sanno cosa vuol dire fare bene perché lo hanno nel cuore, e forse bisognerebbe puntare su questa gente. Perché se non fosse per loro, ma per gli “addetti” pagati da noi, la città sarebbe sommersa e in ginocchio ancora oggi.
Per questo, ringrazio gli angeli del fango, dopo loro il niente, o meglio dopo di loro la responsabilità di tutti noi ad accompagnare l’impeto di questi cuori che desiderano cose grandi, a non dimenticare che siamo fatti per fare il bene. Se la realtà ci provoca anche in modo così crudo, noi ci ridestiamo e ci stupiamo della bellezza che c’è attorno a noi, anche nel fango.
Andrea Frega