Luigi Accattoli l’ha scritto in prima pagina sul Corriere: “parole (mai dette) sulle unioni omosessuali”. Lui vaticanista di lungo corso, osservatore ironico e distaccato di affari di Chiesa, si è spinto fino ad usare il termine “rivoluzione”. E chi lo conosce sa che non è uomo da entusiasmi repentini o da retorica a buon mercato. Quindi la novità c’è. Nei tre paragrafi (50-52) della Relatio post disceptationem, pronunciata nell’aula nuova del Sinodo dal card. Péter Erdo, arcivescovo ungherese, relatore incaricato da papa Francesco, che vanno sotto il titolo: “Accogliere le persone omosessuali”. E sempre il maestro decano spiega che inedito è il linguaggio e inedite sono le sottolineature: 1. Riconoscimento di capacità e attitudini proprie delle persone omosessuali e loro utilizzazione in ambito ecclesiale; 2. Valorizzazione delle unioni omosessuali laddove costituiscano un aiuto reciproco per le persone coinvolte; 3. Preoccupazione per i figli delle coppie omosessuali che intendono garantire alla progenie l’iniziazione sacramentale. Insomma uno sguardo positivo o almeno orientato a cogliere il positivo su ciò che la vita di una coppia omosessuale rappresenta.
Poco importa che ieri la segreteria del Sinodo si sia affrettata a comunicare l’errata corrige. O meglio abbia messo le mani avanti rispetto all’alzarsi di mugugni su questo ed altri passaggi della relazione non meno innovativi e audaci. Il fatto è che la Relatio non è un documento definitivo, ma una semplice sintesi del dibattito in aula. Non è neanche un primo testo normativo o dottrinale. Solo il resoconto di ciò che si sono detti in assoluta franchezza e onestà i padri sinodali nella prima settimana di lavoro. Insomma è il primo giro di carte, la partita è lunga e soprattutto gli assi si calano alla fine. Che nel caso in questione è lontana, molta lontana: il 25 ottobre 2015, data di chiusura del secondo Sinodo (questa volta ordinario, quindi più allargato e meditato) sulla famiglia.
Quindi, come giustamente rileva Accattoli, al momento si può registrare solo questo azzardo linguistico nella sintesi, la trasparenza sui lavori in aula che qualcuno si ostina a dichiarare censurati, e la porta aperta a più creative esperienze pastorali. Ciò che rimane immutata è la dottrina. Eppure la dichiarazione ufficiale del direttore della Sala Stampa Vaticana con cui si richiama la natura del documento (“di lavoro”), e si ricorda che ora è sotto osservazione dei circoli minori (dove sarà possibile apportare obiezioni, emendamenti e specifiche) mette in luce il tentativo di contenere gli animi e smorzare il tono degli appalusi e dei fischi. “Una doccia fredda” commentava un collega. Semplicemente una necessaria precisazione.
C’è chi non si è riconosciuto nel riassunto fornito o chi ha visto troppe ombre sul matrimonio sacramentale e troppi slanci verso quelle forme di vita a due “imperfette” che hanno finito per monopolizzare dibattito e attenzione mediatica. Certo confesso che anche a me infastidisce sentire parlare di “imperfezione” a proposito di unioni (divorziati/risposati, convivenze, unioni gay) che il mio vecchio parroco chiamerebbe “stati di peccato”. E anche la questione della gradualità va capita e metabolizzata bene (non è che il sacramento si prende a piccole dosi, o c’è o non c’è). E forse un po’ di chiarezza, al di là del necessario dosaggio di Misericordia e simpatia umana, non guasterebbe, senza strizzare troppo l’occhio a certe cordate mediatiche campioni del politicamente corretto.
Ma mi infastidisce altrettanto la difesa d’ufficio della Dottrina che sembra nascondere un “complesso da figlio maggiore” grande quanto una casa. C’è chi si lamenta perché sono state dimenticate le coppie normali, quelle che non hanno fatto del patologico il loro tratto distintivo. Insomma quelli fedeli e bravi, che si sono sposati con il velo bianco in Chiesa, hanno fatto i figli al momento giusto, si sono tenuti per mano, magari con le catene ai piedi anche durante i periodi tosti, non sbandierando magagne e resistendo alle tentazioni. Che per due che fanno famiglia possono essere varie: dalla collega d’ufficio all’ex fidanzato, dall’uxoricidio all’infanticidio, dall’adolescenza di ritorno alla voglia di scappare con la cassa dell’azienda alle Maldive. E mille altre fantasiose variazioni. C’è insomma chi oggi bussa alla spalla del Padre (in questo caso i padri) per dire: “e io? A che mi è servito ammazzarmi di fatica e stringere i denti se poi arriva il figliol prodigo e si becca tutto?” (che nel caso specifico significa anche attenzione, preoccupazione, amore oltre alla particola consacrata della comunione).
Il figlio maggiore, si sa, è il più insopportabile dei personaggi evangelici, eppure è quello con cui noi ci indentifichiamo di più. In questo caso una fetta intera della Chiesa potrebbe tranquillamente mettersi nei suoi panni. Non so se è giusto o no. Non mi sento neanche di biasimarla, la fetta di chiesa. Il risentimento nasce dalla constatazione che il peccatore è sempre più affascinante di chi non deraglia, ingabbiato in un percorso di grigia obbedienza. Ma forse può essere utile ciò che mi ha detto un buon frate spiegandomi questa parabola (indigeribile per chi misura tutto secondo la logica umana). Il figlio maggiore ha una sola colpa: non essersi reso conto che tutto ciò che il Padre dona al figlio reietto, lui ce l’aveva già. In pratica il vitello grasso era a sua disposizione, ha sbagliato a non mangiarlo.
Attenzione, se ci immusoniamo perdiamo la bellezza e la gioia di vivere con il Padre, noi che non siamo passati per la sofferenza della lontananza. I tanti coniugati santamente possono accostarsi alla comunione se non come e quando vogliono, senz’altro più facilmente. E non è poco.