Repubblica di ieri ha ospitato un’intervista al ministro Beatrice Lorenzin indubbiamente interessante. Il quesito di fondo riguarda le politiche demografiche, che da tempo languono al punto da aver trasformato l’Italia nel Paese dalle culle vuote. Un Paese in cui alla deflazione economica corrisponde anche la deflazione demografica: non si esce fuori dalla crisi né in un caso né nell’altro! Qualcuno ha parlato di notte europea, proprio cogliendo la correlazione che c’è tra declino demografico ed economico: meno natalità, meno crescita; meno lavoratori, più pensionati e una crisi fiscale per il welfare europeo.



Ma in questa Europa l’Italia ha il triste primato di un doppio fanalino di coda: il più basso indice di crescita demografica e il più basso indice di crescita economica. Il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, è arrivato ad affermare: “L’Italia sta andando verso un lento suicidio demografico”. Ma forse qualcuno finalmente si sta accorgendo che l’uno non si dà senza l’altro e quindi dalla crisi economica non si esce senza un maggiore investimento sulla famiglia.



Mettere al centro del dibattito politico il tema della famiglia, dalla natalità a tutte le esigenze ad esse legate, è ormai prioritario. La famiglia è infatti soggetto promotore dello sviluppo e del benessere sociale, luogo in cui coltivare il futuro, a cominciare dal desiderio di maternità e di paternità. Secondo una recente indagine pubblicata dall’Istat, Essere madri in Italia, nel nostro Paese nascono in media 1,33 figli per donna in età fertile. Non a caso la Lorenzin parla di Piano per la fertilità. Quello italiano è uno dei livelli più bassi di fertilità ed è accompagnato da importanti mutamenti nelle modalità scelte dalle coppie per avere figli. L’età della madre alla nascita del primo figlio si aggira ormai intorno ai 35 anni ed è opinione condivisa che in Italia si facciano pochi figli non perché non siano desiderati, ma per le oggettive difficoltà economiche, lavorative e di organizzazione. 



Il recente rapporto dell’Istat ha infatti rilevato che il 18,4 per cento delle donne che aveva un lavoro prima della gravidanza è stato costretto a lasciarlo a causa degli orari inconciliabili con i nuovi impegni familiari, mentre il 72,5 per cento delle mamme che hanno continuato a lavorare ha dichiarato di riscontrare forti difficoltà. Tra queste, decisive sono quelle legate alla cura dei figli, alla carenza di asili e alla mancanza di assistenza da parte delle istituzioni. Eppure in Europa esistono Paesi – come quelli scandinavi, la Germania e la Francia – dove il Governo ha investito largamente nelle politiche familiari, determinando un incremento notevole della natalità. Ad esempio in Francia nel 2011 si è registrato un record di nascite (circa 930mila) e un indice di fecondità pari a 2,3 figli per donna. 

Questi dati indicano ineluttabilmente che le scelte politiche condizionano – in modo diretto o indiretto – l’evoluzione della popolazione. In tutti i Paesi la decisione di avere o di non avere un figlio dipende certamente dal contesto culturale e sociale, ma non possiamo ignorare che le condizioni materiali svolgono un ruolo importante a fronte di questa decisione.

Se è vero infatti che la decisione di avere un figlio può dipendere da scelte di princìpi e di valori personali, sia nel caso di volerne che nell’ipotesi diametralmente opposta, è altrettanto riscontrabile che nella maggioranza dei casi esse sono conseguenza di un complesso processo di valutazione di pro e di contro sia dal punto di vista economico che psicologico. Dal punto di vista della donna non si possono ignorare le implicazioni di tale scelta a livello personale e professionale. Sono valutazioni che risentono fortemente sia del regime di welfare che delle forme di sostegno sociale per le coppie, per le famiglie e per l’infanzia. 

Lo Stato, con particolare riferimento all’attività del legislatore, possiede non solo le potenzialità, ma detiene una significativa responsabilità sociale nella determinazione di un incremento rapido e significativo nelle politiche a sostegno della natalità attraverso: 1) incentivi finanziari, che comprendono allocazioni periodiche, per esempio assegni familiari, premi e prestiti, sgravi e crediti d’imposta, tariffe sovvenzionate o gratuite per i servizi per l’infanzia, aiuti per l’abitazione. 2) Misure di conciliazione tra lavoro e famiglia, congedi di paternità e di maternità, nidi, asili e scuole materne, flessibilità degli orari di lavoro, facilitazione di congedi per ragioni familiari non solo nella prima infanzia. 3) Mutamenti sociali favorevoli alla nascita e all’infanzia, tra cui misure per il lavoro delle donne e dei giovani, ambiente favorevole per i bambini e, soprattutto, lo sviluppo di atteggiamenti positivi nei confronti dell’infanzia e delle funzioni di educazione.

Nella sua intervista il ministro Lorenzin, come ministro della Salute, ha messo l’accento soprattutto sulla fertilità e su quelle che potremmo chiamare le cause biologiche che rendono più difficile la maternità, e al tavolo di lavoro son stati chiamati soprattutto esperti dell’area medica, per cui si sofferma su cause come le malattie sessualmente trasmesse, l’inquinamento, il tabagismo… Ma non le sfugge come forse il lavoro più importante vada fatto per rimuovere il disvalore che si porta dietro la maternità in certi ambienti professionali.

Il ministro però non accenna a uno dei fattori che con maggiore frequenza hanno inciso nella nostra cultura per ridurre sia il tasso di fertilità che quello di fecondità. Il forte investimento delle donne negli ultimi decenni verso i processi di autorealizzazione, con una spiccata crescita delle pur legittime aspirazioni al successo e alla affermazione personale. A tutto ciò si aggiunge un bisogno di sicurezza economica che ha indotto a posporre sempre più avanti la realizzazione, mai sopita, di un profondo desiderio di maternità. Un desiderio che si risveglia prepotentemente più avanti negli anni, quando l’orologio biologico non è più in grado di farvi fronte. Ed è allora che questo desiderio assume la forza di un diritto individuale, il diritto ad avere un figlio, e diventa necessario ricorrere alla Pma, omologa prima e ora anche eterologa. 

Dice bene la Lorenzin: la Pma non può risolvere il problema della crescita demografica del paese. Ma mentre propone di mettere la Pma tra i livelli essenziali di assistenza, assicurando ad entrambe le forme, omologa ed eterologa, un canale di finanziamento veloce, non dice nulla su tutte le altre misure fondamentali per incoraggiare le donne ad avere figli.

Per esempio l’intervento sul piano sociale e culturale per spingerle ad avere figli quando sono in età fertile, dando al termine di salute riproduttiva il suo significato più genuino: prevenire le malattie a trasmissione sessuale, non solo attraverso opportune campagne di vaccinazione, ma anche con una azione educativa che faccia leva sullo sviluppo della propria affettività nel pieno rispetto di sé e dell’altro. A distanza di alcuni decenni le letture catastrofiche dei maltusiani, vecchi e nuovi, appaiono del tutto infondate. L’economia cresce con una progressione analoga a quella con cui cresce la popolazione e al tavolo promosso dalla Lorenzin vorremmo che ci fossero anche quegli economisti capaci di spiegare quanto stretta e profonda sia la relazione tra sviluppo umano e sviluppo economico… ma soprattutto dovrebbe esserci qualcuno di quegli pseudo-esperti che a livello dei decisori politici non riescono a capire come una forte riduzione della pressione fiscale che attualmente schiaccia le famiglie può incentivare la crescita più e meglio di altri dispositivi!

Alla Camera ci sono molti ddl di molti colleghi appartenenti a diversi schieramenti parlamentari – anche io ne ho presentati in ogni legislatura più di uno! – per il sostegno e l’incremento della natalità, ma sembra che non arrivi mai il tempo per discuterli, mentre le priorità si concentrano su altri aspetti oggettivamente meno collegati strettamente alla crescita e allo sviluppo del Paese… La salute della donna, la sua fertilità, analogamente a quella dell’uomo, sono beni preziosi che vanno adeguatamente tutelati. Ma mai come in questo caso la fertilità appare al centro di un crocevia in cui si intrecciano politiche educative e politiche economiche, politiche sociali e  politiche del lavoro che debbono guardare alla genitorialità come al più potente fattore di sviluppo del paese.