Caro direttore,
il Sinodo straordinario sulla famiglia conclusosi domenica con la beatificazione di Paolo VI ci ha consegnato una relazione profonda e dettagliata della discussione interna, con il puntuale e inedito resoconto dei voti sui singoli punti del documento finale. 

Tutto questo è successo mentre a Roma il sindaco Marino, seguito a ruota (almeno nelle dichiarazioni) da numerosi altri primi cittadini d’Italia, trascriveva nei registri del Comune le unioni omosessuali di sedici coppie “congiuntesi in matrimonio” all’estero. Ora, volendo andare oltre questi fatti di cronaca — su cui chi di dovere ha già preso posizione ampia e articolata — e volendo invece essere fedele al mandato del Papa (che ci ha detto di far maturare e di far crescere quanto ci è stato consegnato dal Sinodo) vorrei offrire tre piccole riflessioni come contributo a questa maturazione chiestaci dal Santo Padre Francesco.



1. La prima riflessione è “di fondo”: mai come in questo Sinodo la Chiesa è tornata a mostrarsi per quello che è, ossia un fenomeno plurale. Lo stesso fatto di Gesù Cristo, la sua vita, come la Sua morte e la Sua Resurrezione, non ci sono giunti attraverso un’unica narrazione, bensì attraverso quattro racconti teologici che abbiamo chiamato “Vangeli”. In ciascuno di essi, pur descrivendo il medesimo evento e pur concordando sulle questioni essenziali, si sviluppano quattro teologie destinate a determinare fortemente lo sviluppo della Chiesa antica. Ogni volta che, quindi, abbiamo paura di essere plurali, di ascoltare un pensiero o un’esperienza che si dà con modi o accenti diversi dai nostri, abbiamo paura del Vangelo, abbiamo paura di quello che la Chiesa essenzialmente è. 



Nessun Vangelo, da solo, si può erigere a “canone” — ossia a criterio di paragone ultimo — dell’esperienza cristiana. Così nessuna delle diverse posizioni espresse dal Sinodo possono avvalersi dell’ultima parola nelle materie discusse dall’Assemblea straordinaria. Lo stesso Papa ci ha messo in guardia, nel suo splendido discorso di chiusura, da ogni estremismo, e ci ha invitato ancora una volta a pregare e a far germogliare in noi i semi che il dibattito di questi giorni ci ha donato. 

Credo che questo sia, dunque, l’atteggiamento con cui dobbiamo guardare a questo anno che inizia: non la difesa delle parole che ci piacciono di più nel documento finale del Sinodo, ma l’apertura a incontrare e a comprendere quelle che ci piacciono di meno per poterle riesprimere con termini rispettosi e della dottrina e delle ferite concrete di una moltitudine di gente.



2. Una seconda riflessione, invece, riguarda il linguaggio del confronto sinodale. Da sempre, infatti, nella storia della Chiesa, le definizioni dogmatiche o pastorali hanno cercato di avvalersi di due strumenti: l’autorità della Sacra Scrittura e il linguaggio della cultura contemporanea. Parole come “omousios” o “transustanziazione” non ci sono nella Bibbia, eppure sono diventate, in forza della riflessione biblica operata da teologi e da padri conciliari, parole cardine per esprimere con precisione alcune realtà fondamentali della nostra fede. 

In questi ultimi decenni, al contrario, si è avvertita nell’aria troppa “autoreferenzialità”: si vuole parlare al mondo con le sole parole della Scrittura, conferendole un’autorità indiscussa che purtroppo essa non ha più per i nostri interlocutori. 

Abbiamo quindi bisogno di trovare parole nuove, termini nuovi, per poterci confrontare col nostro tempo e per poter annunciare al mondo la bellezza e la forza dell’incontro con Cristo. Senza questo cambio di linguaggio, continuando a dire semplicemente che “maschio e femmina li creò” o che “non è lecito separare all’uomo ciò che Dio ha unito” avremmo sicuramente raggiunto il risultato di un discorso rassicurante, ma saremo sempre più lontani dal vero obiettivo del Sinodo e di tutto il cristianesimo: annunciare la salvezza di Cristo ad ogni uomo. Proprio per questo non bisogna certamente accantonare le parole della Scrittura, ma accompagnarle con altre che possano renderle condivisibili e foriere di letizia anche per l’uomo post-moderno. Noi abbiamo bisogno di cambiare, abbiamo bisogno di tornare a parlare al cuore di ogni uomo e di ogni donna “di buona volontà”.

3. Infine è proprio nel merito che vorrei intervenire, suggerendo un elemento di confronto secondo me trascurato dal dibattito sinodale per come, fino ad adesso, si è articolato. Mi riferisco al fatto che tutti, sposati o separati, divorziati o conviventi, risposati o omosessuali, siamo uomini. La nostra umanità è il comune denominatore che ci fa incontrare e scontrare nella storia. Nella nostra umanità noi possiamo quindi ritrovare quei termini di fondo che ci aiutano a comprendere, al di là delle riduzioni giornalistiche, i punti centrali dei problemi in esame. Infatti ogni uomo, ci insegna la dottrina cattolica, è ferito dal peccato originale, è — come esito condivisibile da tutti — un essere misterioso e fragile, bisognoso di amore e ricco di desideri. Questa radice comune dell’Io – il desiderio appunto – può essere guardata o con scetticismo, come spesso ha fatto l’antropologia protestante e una parte tardiva della patristica, oppure con stima e stupore. 

Nel primo caso nel desiderio umano si vede un segno di impotenza a cui si cerca di rispondere con la potenza della legge: siccome io desidero qualcosa, la legge degli uomini mi deve permettere di averlo. È questa la logica che sta dietro non sono alle rivendicazioni delle unioni civili, ma anche a tante dinamiche della nostra vita: pensare che “poter fare” una cosa che desidero coincida col compimento del desiderio stesso. In realtà la posizione di molta parte della patristica più antica ci insegna che, fin dagli albori della Chiesa, la fede ha sempre indicato nell’amore, nel “rimanere in contatto con i propri desideri e i propri bisogni” la strada per il compimento dell’Io. Ogni desiderio va guardato con amore, va guardato nella sua radicalità, per essere scoperto in modo autentico. Ogni bisogno del nostro cuore non può trasformarsi in un diritto da rivendicare, ma in una consapevolezza da far fiorire per il compimento della nostra stessa umanità. 

Io, desiderando questa cosa qui, di che cosa sento davvero il bisogno? Sono disponibile ad ascoltare il mio cuore fino in fondo oppure chiedo alla legge di chiudere subito la mia domanda realizzando quello che desidero? Al bisogno umano si risponde con l’amore o con il potere?

È chiaro, direttore, che queste sono solo domande, provocazioni, riflessioni, ma forse è su questi termini che il nostro dialogo — durante questo lungo anno — si dovrebbe realmente spostare. Mi auguro di avere presto occasione di tornare su tutti questi temi. Infatti capisco sempre di più che in tutta questa vicenda non c’è in gioco anzitutto la famiglia o la conservazione della civiltà, ma il modo stesso con cui io, ogni giorno, cerco e provo ad essere felice.