Il discorso di Papa Francesco ai giuristi dell’Associazione Penale Internazionale ha suscitato una vastissima eco. “Abolire la pena di morte”, “l’ergastolo è un’esecuzione capitale”, “no alla tortura e al carcere disumano”. La sensazione è che in tantissimi siano rimasti colpiti; ma da cosa, in verità?
Molti hanno commentato questo discorso sottolineando come il Papa in esso abbia dato voce ai sentimenti di umanità, misericordia e compassione propri della religione cristiana, sentimenti che oggi sono sempre più assenti dal dibattito pubblico sulla pena, sulla criminalità o sulle carceri. Io penso, invece, che questo accorato richiamo di Papa Francesco rappresenti una esemplificazione illuminante di quanto il Papa emerito Benedetto XVI ha affermato nel suo storico discorso al Bundestag di Berlino. Il contributo della fede cristiana al diritto e alla giustizia non consiste nel suggerire (o imporre) i principi morali da tradurre in legge, quanto nel “risanare” la ragione nel suo rapporto con la realtà e la natura. E’, dunque, innanzitutto consentendo un uso non ridotto della ragione in chi deve prendere decisioni collettive, che la fede contribuisce alla creazione di un ordine giuridico-politico autenticamente umano.
Se leggiamo con attenzione il discorso di Francesco, ci accorgiamo che il Papa non contrappone mai la misericordia alla giustizia o alla pena, ma, al contrario, è il suo sguardo carico di misericordia che consente un giudizio realistico e ragionevole su pena, carcere e giustizia.
Ad esempio, il Papa afferma: “negli ultimi decenni, si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la stessa medicina. Questo ha fatto si che il sistema penale abbia varcato i suoi confini — quelli sanzionatori — per estendersi sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, ma senza una efficacia realmente riscontrabile”.
Qui il Vescovo di Roma, pur non essendo uno studioso di diritto penale o di politiche criminali, coglie sinteticamente e con grande lucidità uno dei fenomeni più impressionanti degli ultimi decenni: l’ipertrofia del diritto penale. Una volta distrutta la capacità di coesione morale ed educativa della società civile, oggi l’unico modo per assicurare un minimo di “tenuta” alle regole della vita associata è quello di sanzionarle penalmente. E così interi settori del sistema normativo sono passati dal diritto amministrativo o commerciale a quello penale: si pensi al diritto urbanistico o a quello previdenziale, al diritto tributario o a quello del lavoro, si pensi al diritto societario o alla stessa “criminalizzazione” della politica.
Come si dice nel gergo quotidiano: oggi basta un nonnulla e “si va a finire nel penale”. Ma così è chiaro che la pena (tanto quella detentiva, che quella pecuniaria) perde la sua funzione di “extrema ratio” dinanzi alle violazioni più gravi, per diventare una “medicina buona per qualsiasi malattia”.
Con la conseguenza che, come una rete troppo estesa, finisce per trattenere sono alcuni pesci, quelli più piccoli che rimangono impigliati, mentre paradossalmente i veri criminali finiscono per sfuggire alle punizioni. Qui, prima che una questione morale o teologica, il Papa solleva un problema di “ragionevolezza pratica”: infatti, così facendo, la stessa efficacia preventiva o dissuasiva della sanzione viene meno; basti pensare che oggi, con il carico di lavoro che hanno i pubblici ministeri, il reato di furto semplice, di fatto, non è più perseguito.
Il Papa, quindi, non fa appello ai buoni sentimenti o alla pietà cristiana, ma poggia le sue ragioni su uno sguardo intero ed integrale all’uomo e alla sua condizione, uno sguardo più realistico, perché pieno di affezione e stima per il destino di ciascuno.