Ascoltando la catechesi di Papa Francesco, ieri mattina, per una strana associazione di idee mi è venuta in mente la favola filosofica (non me ne vogliano i puristi del genere) di Saint-Exupery, in particolare quel capolavoro di letteratura e poesia che è il dialogo tra il Piccolo Principe e la volpe, quel confronto che si conclude con un doloroso, eppure carico di promesse, addio e la consegna del segreto dei segreti:. “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
La profondità abissale del Mistero contenuto in queste parole ha interrogato più di una generazione e affascinato quanti si accostano al racconto dell’aviatore francese come ad un pozzo a cui attingere sapienza e intelligenza della realtà. Nella dialettica di amore e amicizia che è il romanzo dell’adorabile Piccolo Principe, il segreto consegnato dalla volpe “addomesticata” è la Verità preziosa che permette di comprendere se stessi e l’universo. Credo che tutto mi sia venuto su dallo stomaco fino al cuore perché l’accostamento dell’aggettivo “invisibile” al concetto di essenziale contrastava inspiegabilmente con quanto Papa Francesco stava spiegando.
Troppo concentrati, a volte, nel rincorrere il significato nascosto delle cose non ci accorgiamo di ciò che è a disposizione. Insomma perdiamo di vista (scusate il gioco di parole) il “visibile”. E il visibile della nostra fede è la Chiesa. La comunità di battezzati che testimonia la propria appartenenza a Cristo. Spesso siamo così concentrati nel porre ostacoli e obiezioni che non ci accorgiamo che il corpo di Cristo edificato nello Spirito Santo, la Chiesa, non è fatto solo da papi, vescovi, suore e preti, ma comprende tutti noi bagnati, unti e segnati nel nome di Cristo.
Francesco ieri ha parlato di Chiesa come di una comunità di fratelli che “si fanno vicini agli ultimi e ai sofferenti, cercando di offrire un po’ di sollievo, di conforto e di pace”. “L’Invisibile” esiste, è ineludibile, e in fondo è la ragione e il senso di ciò che vediamo, come insegnava bene la volpe. Persino la realtà “visibile” della Chiesa “non è misurabile, non è conoscibile in tutta la sua pienezza” spiegava ieri Bergoglio, ma dobbiamo rilevare che esiste una “meraviglia” ecclesiale, un insieme di opere e persone che è in grado di stupire e affascinare l’umanità.
Una “meraviglia della fede” che è oltre il nostro controllo e che pure passa attraverso di noi. Questa consapevolezza unita alla coscienza del proprio peccato dovrebbe orientare l’agire e il vivere del cristiano. Eppure non sempre è così. Anzi avanza spesso nei ritagli di discorsi tra credenti la questione della “coerenza”, virtù troppo facilmente imputata ai cretini. Sia bene inteso, stiamo parlando della coerenza intesa nel suo senso più puro, quello che viene dal latino cohaerere vale a dire “essere unito”, essere in armonia, compatto, in piena connessione tra cervello/cuore/azione.
Ma quanti di noi hanno ascoltato discorsi in cui si loda il Vangelo, si esaltano i suoi precetti e poi si rivendica una libertà di azione? Oppure quanti ogni giorno osservano il gap tra ciò che si pensa, e a volte predica, e le azioni che si compiono? O ancora chi riesce a porre consequenzialità tra la propria fede e il suo stile di vita?
Abbiamo l’alibi del peccato originale, ma non è una rete per tutto. C’è uno spazio di libertà che impone domande scomode a cui dare risposte concrete e fattuali. La coerenza, lontana dall’essere un esercizio moralistico, uno sforzo di adeguamento a principi astratti, è la tensione all’unità che è alla base del desiderio umano. Se amo Cristo non posso che ambire ad “imitarlo”. Se penso che Lui è il centro del mio mondo devo mettermi in cammino per raggiungerlo. Il rischio altrimenti è lo scandalo. Il nostro peccato è scandalo. La nostra mancanza di unità è scandalo. La dissociazione tra cuore e intelletto è scandalo. La lontananza tra ciò che si professa e ciò che si vive è scandalo.
Incredibile il potere contenuto in un’unica azione. Possiamo essere “meraviglia” per il mondo oppure “pietra di inciampo”. Spettacolo della fede oppure scandalo. Non si tratta di bypassare le proprie fragilità alla ricerca di una perfezione astratta, ma di riconoscere nella propria miseria la possibilità enorme della bellezza. Lo ha spiegato molto semplicemente ieri il Papa. Ha chiesto alla folla dei 30mila presenti in Piazza San Pietro chi si sentiva senza peccato. Nessuno ha alzato la mano. Eppure quella piazza colma di pellegrini era una delle immagini più potenti di Chiesa.