C’era un mucchio di gente in piazza San Pietro ieri, ce n’era molta di più sabato, al tramonto. Uno spettacolo, con il cielo terso delle ottobrate romane e l’aria tiepida, riscaldata da 80mila fiammelle. Le luci del Sinodo. Le luci di chi vuole dissolvere l’oscurità nel mondo. Le candele accese non erano lì per fasciare di suggestione le colonne berniniane, né per creare effetti scenografici in uno dei più bei teatri del mondo. Erano segno di vigilanza, illuminavano gli oranti, sentinelle di una Chiesa finalmente e pienamente conciliare. 



C’è chi si commuove ancora al ricordo di un’altra veglia, all’alba del Concilio Vaticano II, con la folla ondeggiante che a forza di canti e invocazioni costrinse Roncalli a tenere uno dei più poetici discorsi pronunciati da un pontefice. La luna, sabato sera, non s’era affrettata come quell’11 ottobre del 1962, quando Giovanni XXIII concluse il suo breve, improvvisato discorso con la buona notte e la promessa di una carezza recapitata ai più piccoli. Ma non è mancata l’emozione di vedere finalmente un popolo consapevole, attento, partecipe accompagnare i padri sinodali sino alla porta dell’aula del Sinodo per immaginare, progettare, costruire una Chiesa sempre più prossima all’uomo e sempre più radicata in Dio. 



Il popolo è stato il protagonista del momento di preghiera voluto e organizzato dalla Conferenza episcopale italiana a poche ore dall’apertura del Sinodo straordinario sulla famiglia voluto da Papa Francesco. E il popolo si è ritrovato domenica mattina fuori dalla Basilica dove Francesco, insieme a cardinali e vescovi di tutto il mondo, celebrava la messa di apertura della grande assise. Uomini e donne che arrivavano da molto lontano, come Marcos, peruviano, con moglie e sei figli al seguito, o da dietro l’angolo di borgo Vittorio, come Peppino e Maria, anziani coniugi con quasi 50 anni di convivenza sacramentata alle spalle e la tenerezza intatta di un amore temprato dalla fatica. 



Uomini e donne con un interesse privato nell’evento pubblico che si consumava, dopo aver scommesso tutta la propria ed unica vita nel legame con un altro da sé, in un’unione inchiodata dal “per sempre”, nell’azzardo di una “cosa” chiamata “famiglia” che in pochi, oggi, sono disposti non solo a difendere e tutelare, ma anche semplicemente ad aiutare e accompagnare. La Chiesa sì, non vuole mollare chi decide di amarsi, e mettere al mondo dei figli, secondo un disegno naturale che appartiene fisicamente e originariamente all’umanità. 

Non si innalzano barricate, non si cercano alleati, non si individuano nemici. E’ una chiesa protesa verso il mondo, decisa a “sollevare” piuttosto che “caricare” pesi sulle spalle dei fin troppo fragili uomini e donne contemporanei. Da oggi, in Vaticano, 191 padri sinodali e 62 tra uditori, esperti e delegati fraterni, sono all’ascolto, nel confronto, con lo sguardo fisso su Gesù, come ha chiesto Bergoglio, per un evento di Grazia che è soprattutto occasione di “discernimento” (altra parola amata dal pontefice gesuita) sulla famiglia e il suo posto nell’evangelizzazione. 

Nell’aula nuova del Sinodo, proprio sopra alla grande sala Paolo VI, ogni santo giorno delle prossime due settimane, questi vescovi, arcivescovi e cardinali, più qualche prelato e religioso sparso, tenteranno di “prestare orecchio ai battiti di questo tempo” e di “percepire l’odore degli uomini” fino a restare impregnati delle loro gioie e speranze. Non credo sarà poi così difficile. Tra loro c’è chi è abituato alla “teologia in ginocchio”, come il card. Walter Kasper, autore della relazione base del Concistoro dello scorso febbraio, un testo che ha scatenato tra porporati e teologi una vera a propria tempesta di interventi e dichiarazioni, comprensivi di fulmini e saette. Ma c’è anche chi come il card. Christoph Schonborn, arcivescovo di Vienna, voci tra le più autorevoli nel panorama europeo, ha vissuto sulle propria pelle le ferite di una famiglia disgregata: figlio di divorziati, rifiuta le contrapposizioni su temi importanti ma non focali, come l’accesso alla comunione per i divorziati-risposati, per indicare il dolore dei figli, la separazione radicata nel cuore, la necessità di comprendere quelle coppie che non se la sentono di arrivare all’altare. 

E non manca la voce di chi, il card. Gianfranco Ravasi tanto per fare un nome, denuncia, con estremo realismo, le interferenze esterne, i tentativi di compressione, le malcelate intenzioni di forzare l’agenda del sinodo, imprimendo un’accelerazione innaturale e  sviante ad un processo pensato, invece, ampio e globalizzante. Nell’aula sinodale ci saranno anche le coppie, ben 14, tra cui anche una mista, che sanno bene cosa vuol dire “fare famiglia” e “tenere famiglia”. E poi non mancherà lui, Papa Francesco, preoccupato che il “sogno” di Dio, il progetto che Lui coltiva con tutto il suo amore, non divenga campo per predatori. Il “sogno” di Dio è il suo Popolo, quegli uomini e donne che oggi attendono con il fiato sospeso cosa emergerà dalla riflessione ecclesiale su uno dei temi centrali per l’umanità. Perché tutti abbiamo un padre e una madre, tutti abbiamo una famiglia per quanto scalcagnata e improbabile, tutti siamo interessati alla bellezza e all’eternità. 

Argomento azzeccato e tempistica perfetta quella di Bergoglio, ma attenzione, non tollererà usurpatori: nessuno potrà impadronirsi del “sogno” di Dio. La cura della Sua vigna, ha spiegato bene ieri papa Francesco, richiede libertà, creatività e operosità. Ed è ciò che è chiesto, da oggi, ai padri sinodali.