Come in una sorta di roulette russa meteorologica, questa volta è toccato a noi. Chiavari, Lavagna, il nostro entroterra e le nostre valli, si sono trasformate in pochi minuti in un fiume d’acqua, in un’ondata di fango. Da due giorni l’allerta meteo era elevatissima e le scuole erano chiuse. Fra noi professori si prendeva in giro tutto questo allarmismo: lo giudicavamo eccessivo e contavamo i giorni di scuola effettivamente persi da settembre ad oggi, domandandoci che fine avrebbero fatto le programmazioni, i compiti in classe e gli stessi percorsi educativi che, comunque la si pensi, hanno bisogno di continuità per trasmettere realmente “qualcosa” che sia per la vita.
Poi, sul tardi, si viene a conoscenza che un’altra scuola dove insegno, quella di teologia della diocesi, ha deciso di sfidare l’allerta e di tenere lo stesso i corsi serali. Con tuoni e fulmini che fanno ancestrale paura ci ritroviamo così — poco dopo le 18 — nel centro di Chiavari, quello stesso centro che, dopo poco più di tre ore, si sarebbe trasformato in un gigantesco corso d’acqua pronto a seppellire la città sotto un mare di detriti e di fango.
La tensione tra gli studenti è decisamente palpabile. Tengo le mie due lezioni, ma si capisce che qualcosa non torna: la luce arriva a intermittenza e la “voce” della pioggia si fa sempre più forte. Finalmente terminano le quattro ore previste. Sono le 21.30 e quando esco con la mia macchina dall’edificio del Seminario, dove la scuola è ospitata, Chiavari è già un fiume. Con l’acqua nelle ruote attraverso le vie dove sono cresciuto, quelle dove ho imparato ad amare, a sorridere e a lottare e vedo che tutto, lentamente, si sta sommergendo. È come se s’immergesse una parte di te, una parte della tua vita, e tu fossi lì a guardare — impotente — con un unico vero obiettivo: che quell’acqua non prevalga.
Nella Bibbia l’acqua non è un elemento positivo. Più volte, dal libro della Genesi in poi, Dio divide le acque e pone loro un limite. L’immagine “mare-male” ritorna vibrante dentro questa notte chiavarese: il male, come questo mare, lentamente penetra il cuore della nostra città, la invade, la rende deserta e ferita. Con la macchina provo a procedere, ma qualunque via imbocco per Lavagna — dove adesso abito in attesa di ristrutturare la mia nuova abitazione a Sestri Levante — si mostra allagata e in piena. Le forze dell’ordine sono scarsissime, girano come trottole e si capisce molto bene che non hanno quasi niente sotto il loro controllo. E anche lì, in mezzo al fango e alla vera paura, un po’ ti viene da sorridere, perché ti rendi conto come nessun piano, nemmeno il più brillante, riesce davvero a far fronte alla vita vera. Perché la realtà è, in definitiva, sempre un’altra cosa.
Ed è inutile prendersela con quello sciagurato che ha deciso ieri sera di tenere aperta la Scuola di teologia, è inutile prendersela con i vigili o con la protezione civile: in quel momento il fango interpella te, te che non sei un eroe e pensi — molto prosaicamente — a salvarti la macchina, a salvare te stesso.
Così, con l’acqua che diventa sempre più impetuosa e l’Entella (il fiume che divide Chiavari e Lavagna e che dà il nome a tutta la piana dove le due cittadine liguri sorgono) che esce dagli argini trasformando l’emergenza in tragedia, prendo la decisione di provare a guadare la marea col mio mezzo in un punto dove appare più bassa. Mi immergo letteralmente nel fiume di fango, sto ai bordi per cogliere i punti più bassi, mi sento in un sommergibile. Prego il Rosario e continuo a stringere il volante e a dire: “Sono nelle tue mani, Signore!”. Per un momento mi sfugge anche un sorriso perché capisco che è vero, che stavolta non bisogna fare nessuna fatica per dirlo, perché è tutto sorprendentemente evidente.
Sul telefono iniziano ad arrivare i primi messaggi degli amici: chi ha cantine o case allagate, chi ha visto invadere dall’acqua i luoghi a sé più cari, chi si è visto sottrarre dalla marea i ricordi e le cose più preziose. Tutti, per una volta, ci si sente veramente insieme. Sui social network si moltiplicano gli inviti a rimanere in casa, ciascuno monitora il proprio quartiere, condivide la conta dei danni e lo stato delle cose. E tutti a dire, l’uno all’altro, “Forza!”. Non c’è rabbia in questa notte chiavarese: c’è dolore, c’è paura, c’è l’attesa angosciosa di sapere (e solo il giorno ce lo dirà) se ci sono state vittime.
Tutti infatti sapevamo di quest’acqua, ma nessuno si aspettava che arrivasse così, in questo modo dilagante e invasivo, a divorare tutto. Pertanto siamo tutti consapevoli che qualcuno potrebbe essere stato sorpreso dal fango, dall’impeto dei flutti, e — a differenza di me — non essere riuscito a mettersi in salvo. Navigando lentamente dentro Lavagna, con una piccola sosta da una famiglia per vedere se era tutto a posto e per mangiare un boccone come avevamo concordato, rientro a casa. Tutto attorno è buio, spettrale: l’elettricità pubblica pare svanita nel nulla. E alle sei del mattino si sente solo il silenzio di una città che respira sotto tutto questo fango. Adesso siamo pronti a incontrare la luce del giorno, siamo pronti a vedere e a scoprire che cosa è davvero successo, dove sono le nostre cose, i nostri pezzi di vita sparsi qua e là da un’acqua che non ha risparmiato nessuno e che ha messo in ginocchio commercianti e lavoratori. Qualcuno darà la colpa alle autorità pubbliche o al “dissesto idrogeologico”, per non dire allo Stato, qualcun altro invece da tutto questo cercherà di lucrare e di speculare mediaticamente.
In primavera in Liguria si vota e saranno molti a farsi uno spot tra noi. Ma, almeno questa volta, non credete a nessuno: chi ha visto lo spettacolo di ieri sera sa che l’uomo c’entra molto (perché non è più capace di custodire se stesso e la realtà che lo circonda) e c’entra anche molto poco (perché è facile dare la colpa agli altri quando le cose ti sorprendono e ti tolgono il respiro, mentre è difficile riconoscere che quello che c’è, comunque c’è e ti interpella, ti sfida, ad affrontarlo, qualunque ne siano le cause).
Chiavari stamattina, proprio per tutto questo, non ha bisogno di eroi, di generosità esibite, di “spirito da caserma” che porti a compiere imprese epiche e titaniche trasformando il palcoscenico di questa tragedia nel teatro del proprio ennesimo narcisismo, Chiavari stamattina ha solo bisogno dei chiavaresi, dei preti come dei commercialisti, dei professori come dei medici, degli operai come degli statali. Chiavari ha bisogno che tutte queste persone, insieme, magari indignate, magari con la morte nel cuore, siano pronte non a protestare e a pretendere gli aiuti di uno Stato che non arriverà mai, ma a riprendere in mano la propria città, la nostra storia. Come quando il male dilaga dentro di te e sei “a pezzi” per quello che sei riuscito a dire e a fare: è allora che devi assumerti le tue responsabilità ed ammettere che, questa mattina (come tutte le altre mattine), non hai bisogno di molto per uscire di casa, hai solo bisogno di una carezza e di qualcuno che ti dica: “Sono qui, non temere!”.
E’ questo che la notte che svanisce lentamente ci lascia: il bisogno di una speranza che sia più forte di tutto questo mare d’acqua, il bisogno di tornare a essere popolo nel momento in cui molti sono rimasti schiacciati e prigionieri del pericolo, il bisogno semplice di essere uomini, umani, là dove la rabbia vorrebbe trasformarci tutti in bestie. È questo ciò che questa città stamattina mendica. Per sopravvivere, per ripartire, per tornare ad amare e a crescere.
Per cui, cari amici, venite a spalare il fango con noi se volete, ma non venite a salvarci. Per quello — senza offese — c’è proprio bisogno di Qualcun Altro. Qualcuno che, anche in questa notte, non ci ha lasciato soli.