Bei tempi quando una G metteva d’accordo tutti. S’intende la G di Gnocca. Nel caso di Vodafone, la G di Gale, Megan Gale. Sono passati anni. Ma adesso che si tratta di 4G? Tocca adeguarsi ai tempi: la G di Gay. Ed ecco lo spot della mammina e compagna, una dopo la dolce attesa ha partorito la creaturina, l’altra le dà il bacino, in una clinica ovattata come un mulino bianco di soffici sentimenti affettuosi, totalmente de-paternizzata. Le immagini suggeriscono infatti che la fecondazione o è stata eterologa, o il padre “alla vecchia maniera” è disperso in Russia con gli alpini dell’Armir e sepolto nell’oblio.
Ma in fin dei conti dov’è la novità? Ormai lo spot LGBT (lesbo-gay-bisex-trans, per chi ancora non lo sapesse) fa tendenza, e gli avanguardisti nostrani della pubblicità (pseudo)-spregiudicata arrivano gioco forza in coda al gruppo. E non si dia la colpa all’Italia omofoba contadina e cattolica, perché in chiesa ci va quasi più nessuno e la terra… si fa troppa fatica. Quanto all’omofobia a me pare più inventata che reale (salvo eccezioni).
Inoltre togliamoci dalla testa che la pubblicità gay-friendly sia fatta principalmente per vendere il prodotto ai gay. La differenza tra gay ed etero non mi consta riguardare l’orientamento, che so, gastronomico, ma quello sessuale. La cosa è un filino diversa.
Una rinfrescatina di memoria. In principio fu l’Ikea: era il 2006 quando il colosso prese la testa mondiale del gruppo delle aziende gay-friendly con uno spot i cui protagonisti erano due genitori omosex, uno bianco e uno afroamericano. Il mobilio low cost è per tutti, o no? Già, e allora il cibo low cost? Burger King promoziona due suoi paninazzi con nomi ispirati all’Italia con gondolieri, maschere e…. Roma caput mundi, un bel gladiatorone che da tergo aiuta affettuosamente un ragazzino a confezionare l’hamburgerone. Baci gay al sugo nello spot Althea; abbracci lesbo sui materassi Dorelan, che a dispetto di quanto il nome evoca non vengono dalla Scozia ma da Forlì. Saremo mica più scemi dell’Ikea, sorbole! si devono essere detti i romagnoli.
Beh, e allora i napoletani? Saranno mica meno furbi e svelti dei forlivesi. L’occasione viene dagli spaghetti: Guido Barilla dichiara che lui di pubblicità con i gay non ne farà mai, e così alza involontariamente la palla al pastaio partenopeo: “Le uniche famiglie che non sono Garofalo sono quelle che non amano la pasta”.
Per sbarcare in Italia la pubblicità LGBT ci ha messo un pochino più di tempo, e come sempre chi da tempo digiuna poi si abbuffa. Ancora Ikea, dove due gay accostano i due letti singoli per abbracciarsi. E Findus, che ti fa fare quattro salti in padella con ai fornelli il compagno promesso sposo di lui, che viene ufficialmente presentato in casa alla mamma, come da copione e tradizione .
Perché in Italia toccateci tutto ma non la mamma. Essa ci rassicura e ci protegge sempre e comunque, anche nelle scelte più ardimentose. Perché l’italiano è sempre stato per la rivoluzione: con il benestare del maresciallo e la benedizione del parroco. Sposa un uomo ma che piaccia a mamma.
Pasolini e i nuovi consumi. In principio fu l’omologazione culturale, prodotta dall’edonismo consumistico, che ci fa scemi uguali e felici, diffuso soprattutto dalla Tv. Correvano i primi anni 70 quando Pier Paolo Pasolini esponeva questa “scandaloso” giudizio e denunciava il “nuovo potere” politico-economico-mediatico sostanzialmente ateo o laicista che, a differenza del vecchio potere, il Fascio, ha cambiato gli italiani dentro – la chiamava mutazione antropologica, a dire che il nostro umano è stato radicalmente trasformato.
Sono passati 40 anni ma questo fenomeno rimane la premessa di tutto. Poi è chiaro che nell’Italia che ancora ricordava la fame e la fatica, funzionava il richiamo al bisogno materiale cui il prodotto risponde: “E dopo questa faticaccia non mi faccio un brodo? ma me lo faccio doppio. Un doppio brodo Star”, o “Non è vero che tutto fa brodo, è Lombardi il vero buon brodo”. Soddisfatti i bisogni primari, anni 60 e 70, si indicono nuovi bisogni, poi i prodotti diventano via via status simbol, qualcosa in cui ti riconosci perché ti aiuta ad essere socialmente riconosciuto. Io ci sono se posseggo… questo o quello. Se avevi il Rolex…
Frittata e galline ovaiole. In principio… Ma adesso il telefonino ce l’hanno tutti, e i vari gestori della rete mobile farebbero fatica a dirti che avere un Tim fa status simbol e un Wind no. E Vodafone, per esempio, come fa a persuaderti che solo lui ti dà la velocità di connessione del 4G? Impossibile. Insomma, molti prodotti o servizi si equivalgono, in una notte resa oscura dal sovraffollamento di bisogni veri e finti, di prodotti utili e inutili, e in una confusione di valori e disvalori, di simboli e di significati cui leghiamo necessariamente i nostri comportamenti. Per non dire del fatto che non basta il 4G per avere davvero una connessione molto più veloce, perché i fattori delle velocità sono molteplici. Occorre che all’offerta commerciale nella testa del consumatore sia associato una forma persuasiva di riconoscimento, sentita inconsciamente quasi costitutiva dell’Io.
Nel caso Vodafone: io appartengo alla comunità della gente libera intelligente e avanti (perché nessuno vorrebbe sentirsi né essere catalogato come appartenente alla comunità degli ignoranti retrogradi e oscurantisti) e quindi Io sono, cioè non sono uno che non vale niente. E Vodafone è con me, è dalla stessa parte, nella stessa tribù.
Ma siamo italiani, e nello spot Fabio Volo come la mamma Findus ti è vicino e ti fa sentire qualcuno perché anche tu povero fantozziano sei sulla frontiera giusta, e anche per te che magari ti sei sempre cagato sotto “è arrivata l’ora di avere coraggio”. Yes I can.
Dite che è una frittata? Eh. E’ da mo’ che sono state rotte le uova. Che dire? Servono nuove ovaiole.
PS. Barilla non è Giovanardi, che la bandiera non l’ammaina e non ha il Mulino Bianco. Così la sua ditta si è iscritta anch’essa alla lista delle aziende gay-friendly. Non la vedo bene per il mugnaio fornaio Banderas.