Le parole non potevano essere più nette. Ai medici cattolici italiani, riuniti per il loro settantesimo anniversario di costituzione in associazione, il Papa non si è risparmiato su alcuno dei temi “caldi” che ruotano attorno alla concezione e al valore della vita umana nel dibattito moderno. Così, se prima di tutto ha voluto affermare con forza che “la vita è sempre sacra, valida ed inviolabile, e come tale va amata, difesa e curata”, in un secondo momento si è spinto nei particolari stigmatizzando la “falsa compassione” che muove gesti quali l’aborto, l’eutanasia e la fecondazione assistita. 



La posizione di Francesco è apparsa pertanto senza spiragli, granitica, non soggetta a elaborazioni filosofiche o a speculazioni teologiche, ma tutta poggiata sulla certezza incrollabile di Qualcuno, di un Dio, che ci ha creati e che, quindi, continuamente ci vuole e ci conserva nella vita. 

Di colpo sono emerse in tutta la loro sterilità le polemiche di questo ultimo anno e mezzo, le prese di posizione che hanno definito il Papa un uomo tiepido, abbagliato dalla modernità, in alcuni casi in “disaccordo” con la dottrina della Chiesa tante volte espressa dai suoi predecessori. Oggi possiamo dirlo con fermezza e senza temere smentite: tutti questi signori, nel loro presunto servizio all’ortodossia, non hanno fatto altro che alimentare quanto di più moderno e diabolico ci sia nella cultura del nostro tempo, ossia il sospetto, il dubbio, il guardare all’altro non “come ad un bene”, ma come “ad un pericolo”, a qualcuno da sorvegliare e da tenere “sotto controllo”. 

È un atteggiamento questo che sovente travalica nelle nostre vite i confini della fede per diventare posizione di fondo rispetto a tutta la realtà: ogni dichiarazione, ogni gesto, ogni fatto non è accolto in quanto tale, ma in relazione all’interpretazione che ognuno di noi ne dà a partire dalla propria storia, dalla propria cultura e dalla propria sensibilità. La politica, la vita sociale, ma anche le cose che dice nostra moglie o nostro figlio, non sono più lette e ascoltate per quello che sono, ma per quello che io credo che siano. 

In questo senso il discorso ai medici cattolici italiani di Bergoglio mette in evidenza una domanda più radicale, quasi a questo punto ineludibile: perché noi, rispetto al reale, siamo così? Perché viviamo questo scollamento, questa criticità pretestuosa, verso il presente, verso il Papa, verso molti Cardinali di Santa Romana Chiesa e verso nostra moglie? Da dove nasce tutto questo? 

Appare difficile rispondere in modo efficace avendo a disposizione poche righe, ma potremmo provare ugualmente a dire qualcosa: il nostro rapporto con la realtà, con le parole che ascoltiamo e con i gesti che vediamo, è infatti spesso “falsato” o “ridotto” perché — anzitutto — fa fatica ad esserci. Un adagio di Sant’Agostino dice: “In manibus nostris Codices, in oculis nostris facta“, nelle nostre mani la Scrittura [i Codici], nei nostri occhi i fatti. 

Il nostro più grande ostacolo ad un rapporto autentico con il mondo che ci circonda consiste così nel fatto che, sia nelle nostre mani che nei nostri occhi, teniamo solo Codices, “ragionamenti”, “preconcetti”, che ci impediscono un incontro serio con la vita e con le cose. Da più di un anno Papa Bergoglio non ci sta invitando ad abbandonare la dottrina, o a trascurarla in nome di una nuova “disciplina pastorale”, ma ci sta chiedendo di guardare ai fatti, di guardare — tenendo nelle nostre mani il grande patrimonio della tradizione della Chiesa e della Sua autorità magisteriale — a quello che davvero nella vita esiste, ossia la pretesa di alcuni, il fallimento umano di altri e la domanda affettiva di tutti. Egli ci sta spingendo a usare i nostri Codices per rispondere a una sete che avanza e che, giorno dopo giorno, noi rischiamo di non guardare più come “sete”, ma come “pericolo”, come “segni del demonio”. 

Indubbiamente il demonio esiste e indubbiamente opera tra noi e dentro di noi, ma tutto il suo impegno sta nel dividerci, nel separarci, dalla realtà e dall’incontro con essa, rinchiudendoci nei meccanismi della mente e nei nostri inventari “fatti sempre senza amore”. Il male sa che se noi dialogassimo davvero con la vita, mettendoci in ascolto di essa, sarebbe possibile — per ciascuno di noi — ritrovarsi ad ascoltare la voce di un Altro che ci interpella e che ci sfida. 

Eppure questo atteggiamento ha un movente che non si esaurisce qui, ma che va ancora più in profondità: la mancanza (in quasi tutti) di una vera esperienza di Comunione. Se manca la Comunione, se manca il “farsi uno” con il cuore del Papa, dei nostri Pastori e dell’intero popolo di Dio, manca quella curiosità sana che — dinnanzi alle parole — non imbastisce processi o sforna giudizi, ma si pone con l’atteggiamento di chi vuole sempre capire il perché certe cose siano state dette o fatte. Come è evidente che questa attitudine comunionale non si impara attraverso un esercizio intellettuale, ma nella cordiale curiosità che può animare il nostro Io di fronte alle parole di un collega di lavoro, di una suocera o di una madre. E’ sempre la stessa cosa a essere in gioco: il desiderio di capire e di incontrare davvero l’altro, ossia ciò che ci costruisce e che ci fa maturare come uomini. 

Mi pare evidente, allora, che non si possa eludere un tema ancora più “viscerale” che anima tutta questa riflessione: la necessità – per vivere – di una “ragione aperta” all’esperienza, di un’apertura di fondo (di una disponibilità) alla vita. E’ questa la grande eredità lasciataci da Benedetto XVI, così aperto e disponibile al reale da non lasciarsi intrappolare dal suo sapere, ma da essere pronto a rinunciare all’esercizio del ministero petrino in nome di quello che vedeva accadere davanti a sé, in nome di un dialogo con Dio che non era fondato sui suoi preconcetti, ma sul suo desiderio di seguire.

Chi oggi manifesta insofferenza e astio verso Francesco è perché, forse, non ha accettato di seguire fino in fondo Benedetto. 

Tutto questo, allora, ci introduce al cuore del problema: il nostro tempo è — molto semplicemente — un tempo che ha smarrito la parola “vocazione” sostituendola con la parola “scelta”, che ha smarrito il senso del servizio come scopo della vita sostituendolo con la propria realizzazione e il proprio successo. San Josemaria Escrivà amava ripetere, fin dagli inizi della sua missione, che l’Opus Dei era nata “per servire la Chiesa così come la Chiesa voleva essere servita“. Noi siamo così miopi che, come minimo, di fronte ad una frase del genere ci stiamo già mettendo a pensare a chi l’ha detta e a che cosa sia l’Opus Dei piuttosto che alla frase stessa, che ridice — con parole nuove — che lo scopo della vita è servire l’opera di un Altro, il disegno di un Altro. È questo che Tommaso d’Aquino chiamava “partecipazione”, è questo che è mancato a tanti cattolici “sapienti” e ortodossi in questo anno e mezzo nel quale hanno quotidianamente spiegato al Papa e ai Cardinali ciò che essi “dovevano” fare, ossia l’umiltà, la capacità di seguire e di lasciarsi mettere in discussione da un uomo che — ricordiamolo in barba a tutti i profeti di sventura — è stato realmente scelto dallo Spirito Santo.

Proprio l’assenza di questa paternità, riconosciuta e vissuta, ci ha fatto confondere il nostro legittimo diritto a manifestare fatica e riflessione, con un diritto che non abbiamo e che anima i sogni dell’uomo fin dalla sua prima origine: il diritto ad uccidere, fisicamente o moralmente, colui che ci è stato dato come Padre.