Il destino beffardo, si titola. Quello che ha portato via Francesca, la studentessa universitaria salernitana travolta e uccisa da un autobus per una manovra sbagliata, proprio sul piazzale del campus. Non si dà pace il fidanzato, Vincenzo, giovane ristoratore di Giffoni che tutte le mattine faceva colazione con lei, e quel mattino, chissà perché, l’ha lasciata andar via con un bacio soltanto. 



Un addio furtivo, inconsapevole della tragedia. 23 Anni, Francesca, studiava lingue, chissà quanto voleva viaggiare, e lontano. Magari con lui, i bravi cuochi sono così richiesti e apprezzati all’estero. Volevano sposarsi, e avevano tanti piani per le loro giovani vite. Vederla lì in una bara, Francesca, tra il pianto attonito dei fratelli, dei familiari, e di tanti, tanti compagni di studio, perfino il rettore, il vescovo. Ne muoiono tanti, di giovani. Ma così no, ci si passa la voce, si bisbiglia l’un l’altro, si grida. Così è una beffa, appunto. 



Eppure, ogni giovane vita, e meno giovane, che se ne va è per un appuntamento col destino. Un incidente. Una malattia improvvisa. E non improvvisa: c’è sempre un “se”, un tassello che manca,  perché altrimenti il quadro di una vita si sarebbe compiuto. Se non avessi fatto quella strada. Se non fossi uscito, quella sera. Se quel male l’avessero scoperto prima. Se lo Stato. Se la giustizia. C’è sempre qualcuno contro ci gridare. Se.

E’ l’appuntamento col destino, che non ci va giù. Perché pensiamo che sia cieco e malevolo, lontano tessitore di fili tutti uguali tra loro e tutti ugualmente  indifferenti. A un certo punto uno sfugge, o viene tagliato, così, per noia. Le Parche sogghignano, e si apre il baratro, per chi va e chi resta.  Oppure è il caso, senza volti né nomi possibili. Senza un perché, senza un senso, dà e prende, e noi pedine, senza neppure avere mani cui aggrapparsi, volti da bestemmiare. Quanto è assurda e puro dolore la vita. Chiunque ragioni, e col coraggio di portare a fondo i suoi ragionamenti, non può che dolersi di una grandezza che non ha sbocco, se non la memoria. Leopardi ha sublimato nel canto questa domanda, la più vera e reale, quella che toglie il sorriso a chi è uomo.



Però, c’è un altro modo di usare la ragione, e sempre fino in fondo. Riconoscere che non può tutto, non arriva a tutto, non spiega tutto. E che è pertanto ragionevole che si appoggi ad altra via, per spiegare, per capire. C’è un uomo che si è detto Dio. E’ morto per vincere la morte, ci ha detto. Testimoni l’hanno visto morire e risorgere.

Ha promesso che risorgeremo anche noi, tutti. E dunque un anno, ventitré o novanta non fanno la differenza. So bene che sono parole, che Vincenzo può sfogare contro di esse la sua umanissima rabbia. Chi ci ha messo qui, ci ha creati per il male, ci promette l’eternità, e non può darci una gioia durevole, almeno per quelli che amiamo? Perché a me? 

E’ l’urlo che si leva da migliaia e milioni di parti del mondo, ogni attimo. Perché a me, perché a noi, perché all’uomo. Ha ragione, Vincenzo. Ma non c’è altra strada che fidarsi di quella promessa, o la disperazione, il nulla che toglie bellezza anche alla sua Francesca, oltreché il futuro. Perché può esserci un futuro, può esserci pace. Può essere che il destino non sia beffardo, e che l’appuntamento con noi sia per il bene, per il paradiso. 

So che non riusciamo a crederci. So che qualcuno ci crede, e con la sua serenità, con la sua tenerezza consola anche me, e mi aiuta a credere. Anche la rabbia, la bestemmia, sono meno vuote davanti a un Tu. E’ un escamotage, per dare un significato al dolore? Ma il tempo senza significato, le cose senza significato non sono. Ed essere è meglio che non essere. Essere sempre è meglio che essere per poco, e poi mai più. Quante volte tocca arrabbiarci con Dio, perché Dio o un suo angelo si chini ad abbracciarci.