“Io mai do per persa una cosa, mai”. C’è tutto il cuore di un uomo in queste parole del Papa che riescono a smuovere l’anima fino alla commozione. Riecheggiano infatti le parole di Gesù, che è “venuto a ritrovare ciò che era perduto”, e riecheggiano lo sguardo di Dio che — tutti i giorni — ci osserva con questa misericordia, con questo desiderio di salvezza, che viene espresso da Bergoglio senza mezzi termini, nella sua cruda verità.
Papa Francesco le ha infatti pronunciate di ritorno dal suo viaggio “al cuore dell’Europa politica”, un viaggio che lo ha portato in poche ore al Parlamento europeo e al Consiglio d’Europa. Le ha pronunciate parlando del terrorismo, della possibilità di dialogare con tutti, perfino con l’Isis. E non le ha dette, come osservano cinicamente molti stimati commentatori, in spregio ai cristiani perseguitati o agli altri martiri di questa assurda guerra che la più grande entità politica islamica dell’età contemporanea sta muovendo all’Occidente. Le ha dette con la forza della fede, una forza che a noi europei pare ormai essere quasi del tutto sconosciuta.
Sono circa duecento anni, in effetti, che il nostro modo di pensare e di concepire la fede non è dettato dal rapporto con Cristo, dall’esperienza della Sua Persona nella realtà, bensì dalle nostre idee, dalle nostre posizioni politiche. Sono proprio le posizioni politiche a determinare e a dirimere le posizioni di fede, e non viceversa. La fede è divenuta seriamente una sorta di “prodotto sociale” esito delle nostre opinioni su Dio e sulla società. Al posto della freschezza del presente, della relazione con il Risorto, è subentrata una preoccupazione fortissima o di conservare il mondo di ieri o di abbattere le strutture contingenti per edificare il mondo di domani.
Siamo diventati conservatori o progressisti, tradizionalisti o socialdemocratici, ma abbiamo dimenticato come si fa ad essere cristiani. Nel corso dell’ultimo secolo abbiamo modellato la fede per metterla al servizio della politica e abbiamo accettato che Dio stesse con i nazisti, con i capitalisti o con Che Guevara. Dimenticandoci che Egli, anzitutto, sta con noi. In Italia, poi, dopo il crollo della Democrazia Cristiana, abbiamo arruolato Cristo sotto le insegne del pacifismo o dell’ecologia, del liberalismo o della famiglia borghese e ci siamo abituati a difendere il nostro partito, trasformando — all’occorrenza — anche la nostra teologia.
Per questo non abbiamo capito un Papa che ci diceva che la caduta del Muro non era una vittoria, ma un’insidiosa tentazione, per questo non abbiamo seguito fino in fondo un Vicario di Cristo che ci diceva che senza esperienza la ragione si restringe e si perde — inevitabilmente — il contatto con il reale, per questo non abbiamo oggi il coraggio di ammirare un Vescovo di Roma che sfugge ad ogni classificazione politica per tornare alla semplice fede.
E la fede, quella sine glossa, quella della grande Tradizione della Chiesa, ci insegna che Dio non chiude mai la porta a nessuno, che per Dio non si fa la guerra, che in Dio c’è sempre spazio per il miracolo, per la misericordia. E chiede a ciascuno di noi che questo desiderio di pace, di conversione dei cuori, diventi il motore e il metodo della nostra azione politica nel mondo, uscendo dalla paura di incontrare l’Altro e di guardarlo negli occhi fino in fondo.
Ad un terrorismo che usa Dio per i suoi progetti di potere, il Papa risponde mostrando che Dio può arrivare dappertutto, perfino all’inaudita stoltezza di morire su una Croce, pur di rientrare in dialogo col cuore dell’uomo. E’ questo che facciamo fatica a capire e a credere noi europei, noi occidentali, noi uomini colti dei nostri giorni: il fatto che il Figlio di Dio possa essere così Dio da vincere ancora, da riaprire ancora una volta la partita col Suo Amore, con la Sua Misericordia. Siamo preoccupati di tante guerre, ma non sentiamo il pianto di Cristo, la voce di Maria, la supplica di San Giuseppe, affinché il nostro cuore possa tornare a “vivere di Lui” ed essere liberato dall’unica guerra che Satana ha realmente ingaggiato su questa terra, quella per il dominio del nostro Io, delle nostre viscere, di ognuno di noi.
Per questo abbiamo bisogno delle parole del Papa, della Sua fede disarmante, per sfidare e smascherare come i nostri occhi — invece di essere pieni di Cielo — siano ormai diventati pieni di rabbia. Una rabbia che ricorda quella del Figlio Maggiore della Parabola di Luca. Un figlio che non riesce ad aprire il cuore e far festa per avere recuperato ciò che era perduto, quel fratello divenuto nemico e che — sebbene debba essere fermato nella sua scelleratezza — ha ancora soltanto bisogno di un misterioso e disarmante perdono, il perdono di un Padre.