Bugchasing: scambiati il virus. Solo che non si tratta di un baco del computer. Bugchasing, ovvero la frontiera del no limit. Della trasgressione, della sfida. Uno pensa che gettare il cuore oltre l’ostacolo, e lottare con la morte, sia roba per animi grandi. Tipo buttarsi a nuoto nell’acqua gelida per salvare un uomo, tipo lanciarsi sulle barricate a Kobane, pensando di difendere tua madre e il tuo amore. O salire su una navicella per passare mesi e mesi sperduto nello spazio, con sconosciuti colleghi che pensano al domani del mondo. Capisco ancora le scalate senza ossigeno degli ottomila, o i tuffi nelle rapide in canoa, l’ebbrezza di un parapendio. Capisco di più, e m’inchino, a chi opera nei lebbrosari dimenticati, chi lenisce piaghe e accarezza sporcizia e dolore.
Il bugchasing è altra cosa: dammi il tuo virus Hiv. Voglio essere sieropositivo anch’io. Non è più un marchio d’infamia, la malattia del secolo, da temere e immortalare come schiaffo ai benpensanti ottusi nei poster di Oliviero Toscani; da nascondere, per rivelarlo nell’estrema agonia, come l’indimenticabile Freddie Mercury. Oggi l’Hiv si cura, se ti va bene campi decenni, basta qualche pastiglia e un prelievo ogni tanto.
Questo rivelano senza inibizioni, senza esitazioni i giovani omosessuali scovati, a volto coperto, dalle telecamere delle Iene, nel sevizio più cliccato e più sconvolgente degli ultimi mesi. Il bugchasing: su wikipedia il termine indica volontà di essere contagiato, ebbrezza di essere aggredito dal virus più temibile dello scorso secolo. Ma se ne parla come di una leggenda metropolitana, di una bufala, insomma, impostata ad arte proprio per bollare con ulteriore sigillo d’infamia il diverso, il gay, per sottolineare la sua bestialità e il suo eroismo. Eppure il servizio delle Iene pare veridico. Si evidenziano le chat filtrate, dove non è così facile essere ammessi; peggio ancora prendere appuntamenti, provare ad entrare nel giro, e fingersi gift givers (notate il lessico: donatori) o bug chasers.
Si fissano incontri, e poi, perché si va in onda che diamine, e tocca dire qualcosa di eticamente corretto, si prova a far ragionare, a convincere che è sbagliato, con motivazioni più che ragionevoli: per esempio, che il servizio sanitario nazionale va a rotoli, e ci manca ancora dover farsi carico di sieropositivi a vita, sulle spalle dei cittadini paganti. E’ strano, anzi triste, che questa sia la reazione più diffusa nei commenti al servizio sul web, insieme al più classico: ammazzatevi come vi pare, prima possibile, così vi levate di mezzo.
C’è qualcos’altro, forse, da dire. Innanzitutto, convincersi che si sta raccontando la realtà, non la finzione. Essere certi che chi appare non recita, non è chiamato a fingere, per spiazzare, per sfondare il limite raggiunto dalla pur moralista televisione italiana.
Dove chi osa di più pare vincere, e la gara non ha più freni. Bisogna ascoltare, e credere che siano vere, le spiegazioni sul “perché” che balbetta chi è interpellato. Non uno che dica “amo il mio compagno, lui è malato, voglio restare con lui fino alla fine”. Terribile, ma di amore e morte è costellata la letteratura più toccante e famosa, ci sta. Non uno che confessi sincero: “la mia vita fa schifo, non ho il coraggio di uccidermi, se mi sfinisco poco a poco qualcuno magari avrà cura di me”.
Tutt’altro; chi prova a giustificare la scelta di inculcarsi la malattia più orrenda ed estenuante parla solo di sesso, ché senza preservativo è meglio, non se ne poteva più di protezioni, scrupoli, patemi. Quando sai che sei sieropositivo, non hai più nulla da perdere. O forse sì, perché c’è pur sempre la sifilide, l’epatite, e quelle malattie antiche fanno ancora paura. Ma se hai l’Hiv entri in una rete protetta, di controlli, di cure, e sei certo di non essere portatore di demoni subdoli e ormai anacronistici, poco nobili, ben più infamanti. L’Hiv ti fa entrare in una cerchia privilegiata, sembrano dire, quasi bevessero assenzio tra i maudits della Lippe parigina di Rimbaud e Verlaine. Gente che vuol solo essere libera, libera di gestirsi e di morire, “che importa di come sarò e se ci sarò a settant’anni”, godere oggi vale di più. Non c’è futuro, non c’è speranza, non c’è significato. Non c’è dunque più umanità, dove ogni mio apparente piacere è liberazione, dove ogni mio desiderio, anche se malato, è un diritto.
Pensiamoci, il bugchaisng è l’estremizzazione di un modo di pensare e agire sotteso al pensiero comune. Ha a che fare col decidere della mia vita e della vita altrui, di confondere l’amore con la penetrazione sessuale, nelle forme più strane; col decidere di non amare la vita, in fondo è il refrain del “giovani sempre, meglio morti che vecchi,” che sulle labbra di Achille aveva ben altro senso del tragico.
Eppure, al posto di quella biondina delle Iene, che pure pare brava, e coraggiosa, e ci ha aperto un alto varco sul baratro della mente e del cuore; al posto di quella ragazza così sfrontata eppure sgomenta, io avrei reagito altrimenti. Forse con la rabbia, il grido, per chi calpesta se stesso e quel che gli è dato, e ne teorizza lo slancio geniale; per chi semina follia contagiosa, senza cura possibile, e si serve dei media per ungere mortalmente i più fragili. O forse, e probabilmente, avrei reagito con dolore e compassione, cercando davanti al vuoto di un uomo un barlume di desiderio, un nascosto eppur necessario bisogno di bene. Guarda che hai un valore, che la malattia non ti condanna alla vergogna e alla morte. Io ci sono, dammi la mano.