C’era persino un intero reggimento a cavallo, oltre al picchetto d’onore schierato in alta uniforme e ad un infinito tappeto indaco. Papa Francesco lo ha percorso accanto al neopresidente della Repubblica turca, serissimo in volto, visibilmente contratto nei modi, quasi a disagio immerso in un protocollo solenne più idoneo ad un capo di Stato che ad un pastore di anime. Il fatto è che toccava proprio al più sobrio e allergico alla mondanità tra i pontefici inaugurare con la sua visita il Palazzo Bianco, l’Ak Saray, simbolo dell’orgoglio ottomano versione 2014, un complesso da 1000 stanze e 350milioni di dollari, al centro di una serie di polemiche e indagini giudiziarie. La sfrenata ambizione di Recep Tayyip Erdogan, leader politico islamico passato dalla poltrona di premier a quella di presidente nonostante gli scandali e le denunce dell’opposizione, aveva bisogno delle telecamere di mezzo mondo per mostrare la Turchia che rivendica un ruolo autorevole e di prestigio nello scenario internazionale. E il Papa dal credito mediatico infinito era l’occasione più ghiotta da cogliere.
Un regia perfetta e sontuosa, quindi, ha accolto il primo capo di Stato nella reggia del “sultano laico”, obbligandolo ad un cerimoniale che prevedeva persino il saluto in turco ai soldati. Effetto straniante quando il coprotagonista è un pontefice schivo, abituato più ai buffetti e ai sorrisi che ai formalismi protocollari.
Per fortuna gli hanno dato spazio per parlare, dopo un ora di colloquio con il capo di uno Stato affacciato su uno dei drammi più sanguinosi e violenti del pianeta, quello dell’occupazione del nord dell’Iraq da parte del sedicente Califfato di Al Baghdadi. Una situazione che ha monopolizzato il confronto privato tra Erdogan e Bergoglio, protrattosi ben oltre i tempi stabiliti, confronto che ha toccato anche se marginalmente altre questioni calde come la libertà di vivere ed esprimere la propria fede, da parte dei cattolici nella terra che, oltre ad aver dato i natali a San Paolo, ha ospitato ben 7 concili e forse anche la Madonna per qualche anno (in quel di Efeso), ma che oggi nega una piena cittadinanza ai credenti in Cristo.
Nell’incontro pubblico, Erdogan ha mostrato sintonia con le posizioni espresse negli ultimi mesi dalla Santa Sede, esaltando la via del dialogo e della fermezza verso gli aggressori più volte ribadita dal pontefice argentino condannando ogni forma di fondamentalismo religioso e denunciando l’islamofobia che nel mondo punta sull’equazione islam-terrorismo per marginalizzare e ghettizzare i credenti in Allah. Ma ciò che gli interessava era non perdere il treno per rivendicare il ruolo di autorevole e rassicurante referente dell’Occidente nella regione infiammata dalle tensioni e dalle violenze.
Non si è trattenuto però dall’interpretare la recente messa all’indice di Bergoglio del “terrorismo di Stato” in modo personalissimo, accusando l’odiatissimo Assad e l’eterno nemico Israele. Toni non compatibili con il discorso alto, moralmente inattaccabile, profondamente conciliante pronunciato poco dopo da Papa Francesco.
Che ha riconosciuto la vocazione della terra della mezzaluna ad essere ponte naturale tra continenti e culture diverse e che ha omaggiato la vitalità e la generosità del popolo turco. Ma quello che il pontefice ha chiesto a un ora di volo dai 22 campi profughi ammassati sui confini con la Siria e l’Iraq è una pace “solida, fondata sul rispetto dei fondamentali diritti e doveri legati alla dignità dell’uomo”.
Una pace che tenga conto del destino di uomini, donne, bambini e anziani che nel nord dell’Iraq, ma anche in Siria, sono stati costretti ad abbandonare le proprie case, la propria patria, per salvare la vita e difendere la fede. Uomini, donne, bambini e anziani che spesso sono stati trattati da prigionieri, subendo violenze e restrizioni, ostaggio della violenza terroristica frutto del fanatismo e del fondamentalismo.
Così il Papa ha chiesto al mondo e al presidente turco di non rassegnarsi al conflitto, di garantire libertà religiosa e libertà di espressione, di fermare l’aggressore ingiusto, ma “nel rispetto del diritto internazionale” senza affidarsi esclusivamente alla sola risposta militare. Parlava alla Turchia, che negli ultimi giorni ha pompato mediaticamente una visita scomoda alla vigilia, ma anche a chi a poche centinaia di chilometri lotta per non perdere la speranza. E parlava all’islam, il Papa, quello turco a maggioranza sunnita che vuole prendere le distanze dalle violenze perpetrate nel nome di Dio per accreditarsi come interlocutore privilegiato nella ricerca della pace e della riconciliazione dell’area.
Non ha nominato l’Isis, Bergoglio, neanche quando a fine giornata si è trovato a parlare alla Diyanet, il dipartimento per gli affari religiosi che Ataturk volle al posto del ministero della Shari’a quando introdusse l’ordinamento laico nella Repubblica. Si è riferito solo ad “un gruppo estremista e fondamentalista” che perseguita intere comunità. Ma l’allusione era chiarissima. Anche perché la reticenza non appartiene a Bergoglio.
E’ davanti ai capi musulmani e al gran Muftì di Ankara che il Papa ha chiesto ai leader religiosi di “denunciare tutte le violazioni della dignità e dei diritti umani”, di proteggere “la vita umana, dono di Dio Creatore”, di condannare “la violenza che cerca una giustificazione religiosa”. Perché l’Onnipotente è Dio della vita e della pace. La prima giornata nella terra della mezzaluna ha fatto capire ai turchi di che pasta è fatto Francesco.