Adesso che Brittany Maynard è morta, che il suo desiderio di “morire” è stato totalmente accolto ed accettato dalla comunità civile, forse si possono dire alcune cose chiare che ci aiutino a vedere gli esatti termini della vicenda.
Brittany Maynard, per chi non ne fosse a conoscenza, è la ventinovenne americana che, scopertasi con un terribile tumore al cervello, ha chiesto e ottenuto dallo stato dell’Oregon il permesso di praticare il suicidio assistito prima che la sua vita diventasse insopportabile e, a suo giudizio, “priva di dignità”. La sua morte è stata un incredibile evento mediatico, sostenuto da un’associazione promotrice del “diritto all’eutanasia” e trasmesso con una precisa strategia di marketing tesa a provocare nello spettatore compassione e rispetto.
La prima cosa da dire su questa storia, quindi, è che Brittany è stata “usata”, il suo dolore è servito a sfamare un vasto circuito ideologico (e commerciale) che si è nutrito di video costruiti ad arte e di servizi televisivi realizzati con il solo scopo di “vendere” e di lucrare politicamente ed economicamente dalla vicenda. Questo, comunque la si pensi, lascia chiaramente interdetti e pone una domanda cui nessuno, al momento, può di certo dare risposta: a chi è fregato davvero qualcosa del dolore di Brittany?
Se questa è la prima osservazione, certamente polemica, ce n’è però una seconda ancora più radicale: con Brittany, infatti, si è data legittimità e cittadinanza a quello che ognuno di noi percepisce trattandolo come qualcosa di vero, di reale. Dal punto di vista filosofico, ma ancor di più psicologico (e mi domando dove siano adesso tutti gli psicologi che commentano i fatti di cronaca giustificando e rendendo plausibile ogni sorta di nefandezza), è noto e risaputo che ciò che noi percepiamo della realtà spesso non solo non coincide con la realtà stessa, ma è determinato dai condizionamenti della nostra mente e della nostra storia, al punto che un rapporto autentico col reale oggi è difficilissimo e problematico. Brittany percepiva la sua condizione come insopportabile e inesorabile: si era convinta di un destino che solo le statistiche — e non la realtà — le aveva prospettato, rielaborando ogni dolore e ogni problema dentro un preciso schema mentale che la portava a sostenere come inevitabile un certo futuro e un certo stato di salute. Ora, pur tralasciando la questione di fondo (sul fatto che una vita meriti sempre e comunque di essere vissuta), chiunque è affetto da depressione o da altri disturbi psichici sa benissimo, se ne è consapevole, che il principale problema con cui si trova a combattere è proprio quello di una percezione alterata della realtà, percezione da cui si sente inesorabilmente schiacciato e definito.
Nella vita di tutti i giorni, come nel caso di Brittany, troppe volte noi trasformiamo in realtà ciò che percepiamo nel rapporto con gli altri, con le cose, con sé. Il problema non è che questo accada, ma che ci sia una società che — invece di aiutarci a “ritornare al reale” — legittimi le nostre percezioni e sulla base di esse ci consenta di agire. Il tumore, la depressione, il disturbo bipolare, il semplice “umore quotidiano” ci introducono in un clima mentale dove la realtà, nel bene e nel male, rischia di non essere sentita nella sua verità, ma solo percepita alla luce di uno schema conoscitivo danneggiato dal nostro momentaneo (o permanente) tessuto emotivo. Prima ancora dell’eutanasia ciò che è grave nella vicenda di Brittany è proprio questa legittimazione delle percezioni soggettive che nessuna comunità civile può permettersi, pena la perdita o l’aborto (lo scarto direbbe il Papa) dei suoi individui più fragili e più poveri. Ogni uomo è libero: ma la realtà è, indipendentemente da qualunque credo o ideologia, il confine entro il quale l’uomo può esercitare questa libertà. Se salta questo confine, cari amici, salta tutto, saltiamo noi, smettiamo di essere uomini.
Infine permettetemi di concludere con una considerazione teologica. La vicenda di Brittany, amata e voluta dai suoi cari, cui decine di persone hanno scritto supplicandola di ripensarci, invitandola a guardare a vite “ben peggiori” vissute con gioia e gratitudine, ci mostra non solo tutta la potenza della libertà dell’uomo — che può sempre dire di no alla vita — ma anche l’esistenza del peccato, di una riduzione strutturale (originale) del nostro bisogno di “bene” a un qualcosa che noi identifichiamo con ciò che già sappiamo e già conosciamo, un qualcosa “buono per nutrirsi, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza”. E’ questa, dunque, l’amara realtà della nostra vita: siamo segnati dalla tentazione profonda di ridurre il nostro cuore a qualcosa di semplice, di commestibile, pronto a divorare tutto pur di sentirsi per qualche istante sazio. Il fatto è che, adesso che abbiamo saziato l’appetito di Brittany e dei suoi sostenitori, ci troviamo con un diritto in più, ma con un cuore in meno. Possono farci leggere tutti i testamenti “poetici” del mondo, ma niente può sostituire questo semplice e piccolo dato: oggi su questa terra una storia si è interrotta non perché ha raggiunto il suo fine, ma perché in essa ha vinto la paura. Quella stessa paura che minaccia ognuno di noi dentro ognuna di queste grigie giornate di novembre.