Lei è Natalia Sotnikova, 40 anni, di origine moscovita. E’ a Bordighera da una settimana, occupa con il marito (attuale) e con il figlio Semyon di nove mesi (avuto dal precedente consorte) una suite di un hotel di lusso. E’ lì perché ha bisogno di una vacanza: dopo il parto ha sofferto di depressione ed ora si sente tanto stanca, come confida a… chi capita capita, postando le sue pene su Facebook. Eh sì, con il parto è finito un matrimonio e il partorito è epilettico come la nonna, questo almeno è ciò di cui Natalia si dice convinta. Bordighera, meta apprezzata dalla noblesse russa di prima della Rivoluzione, è l’ultima tappa di una lunga vacanza iniziata a Mosca, proseguita a Francoforte e poi a Ginevra. Alberghi di lusso, auto a noleggio di lusso: insomma, il problema non sono i soldi. Natalia insegue qualcosa che la faccia rifiorire. 



I fatti iniziano alle due della notte tra mercoledì 10 e giovedì 11. Nella suite di Bordighera il marito sta dormendo. Natalia esce dall’albergo con Semyon in braccio, sale in auto (una grossa Bmw blu notte noleggiata a Ginevra), si dirige verso San Remo, prosegue sino alla scogliera di Bussana, si tuffa con il bimbo nel marsupio, percorre a nuoto qualche decina di metri, il bimbo non respira più, lei allora sgancia il marsupio e lo abbandona al mare per consegnarlo alla morte, così che “non debba mai soffrire”, torna a riva, risale in auto, rientra in albergo, non sa dare spiegazioni convincenti all’uomo che vuol sapere dov’è il bimbo, l’uomo infine, allarmato, chiama i carabinieri. Interrogata, la donna confessa, come si è detto, e finisce in cella nel reparto femminile del carcere di Imperia.



Poca trippa per il tele-pubblico. Siamo di fronte a una madre che uccide il figlio. Ma non durerà il clamore mediatico perché tutto quadra, non c’è giallo, non c’è intrigo, non materia per morbosa curiosità; e poi lei è una russa, mica una di noi: in archivio. Vuoi mettere con la storia ragusana di Loris? Lì sì c’è trippa per la voracità mediatica del tele-pubblico: viene allestito tutto il giallo minuto per minuto perché lì non quadra un tubo, lì le discrepanze tra le versioni della mamma e l’occhio onnipresente delle telecamere di sorveglianza, centellinate a dosi di un quanto basta al dì, vanno ad allestire un intrigante rebus, un quizzone nazionale, una cinica telenovela in cui il gossip soddisfa la pretesa di capire la realtà possedendola dal buco della serratura e schierandosi come per Milan o Inter (basta stabilire di chi è la colpa) e spegne il desiderio di vera conoscenza e la disponibilità a lasciarsi interrogare.  



Macché raptus di persone folli. Le cronache recenti non mancano di fornire altri esempi tragicamente eloquenti. Non ci sono solo Bordighera e Ragusa, ma anche Rapallo e Ancona, dove questa volta non delle madri ma dei padri (in via di separazione dalla moglie) hanno ucciso moglie e figlio, e poi se stessi.

Di fronte a questi fatti c’è un modo meno banale del gioco dell’Indovina chi? per non lasciarsi interrogare: attribuire gli infanticidi, o i delitti in famiglia, al raptus improvviso di persone folli. Ma siamo sicuri che in realtà non si tratti dell’esplosione dello “strisciante disagio di persone normali”, per usare un’espressione che trovo molto convincente di Daniela Missaglia, avvocato matrimonialista e cassazionista, specializzata in diritto di famiglia e in diritto della persona. “Uno strisciante disagio di persone normali — cito per intero da un suo articolo su Panorama — declinato in sottili e subdole modalità di adattamento al dolore e alla prostrazione, dove la presenza dei figli alimenta in via esponenziale la necessità di trovare una soluzione definitiva”. Chi non è persone normali con striscianti disagi scagli la prima pietra.

Lo scandalo del dolore. Natalia uccide il figlio perché non abbia a soffrire. Natalia deve allontanare il dolore dal figlio perché deve allontanarlo da se stessa. La vita ha due certezze: la morte e il dolore. Se non sappiamo dare più un senso a queste realtà inevitabili, cerchiamo di anestetizzare il dolore pensando che così potremo sentirci “rifiorire”, o di accelerare la morte se ci manca l’anestetico. Natalia ha inseguito il bisogno di “rifiorire” cercando risposta in una vacanza, sulla strada Mosca, Francoforte, Ginevra, Bordighera… che non era la strada bella. Non c’è peraltro vacanza dalla vita, e nemmeno dalla famiglia, dal consorte e dai figli. E questo può essere un peso insopportabile. Così ci può sembrare amore, compassione, pietà, proteggere dal dolore, sino all’omicidio di chi soffre, o di chi vediamo soffrire. O anche non fin lì, generalmente. Invece…

Coletta e la strada per rifiorire. “Né il sol più ti rallegra / Né ti risveglia amor: Il Pianto antico di Carducci custodisce nel cuore della nostra storia quel mistero per cui Dante Alighieri prega la Madonna perché una ricchezza di umanità nuova affermi la vittoria del bene attraverso il suo dolore di sposa e di madre: In te misericordia, in te pietate, / in te magnificenza, in te s’aduna /quantunque in creatura è di bontate. La testimonianza di Dante Alighieri è rifiorita nel dolore della signora Coletta”. 

Sono parole tratte dal testo della “copertina” del Tg2-Rai delle 20.30 del 18 novembre 2003 scritto da don Luigi Giussani per i funerali delle vittime di Nassiriya. La signora Coletta in quella strage aveva perso il marito, carabiniere: la sera stessa in tv leggeva il Vangelo: «Amate i vostri nemici…». Una fede che colpì tutti, e in particolare don Giussani. “La sua parola più importante per me — confidò Coletta in un’intervista raccolta da Alessandro Banfi — è stata: rifiorita. Quando ha detto: «La testimonianza di Dante Alighieri è rifiorita nel dolore della signora Coletta». In quel «rifiorita» c’è il senso della vita che ricomincia e che anzi diventa un di più. Nel dolore, nella morte, nella mancanza (che ahimè ci sono eccome), quello che conta è un rifiorire. Da quel dolore estremo, da quel seme, sono nati dei fiori, dei frutti. Un bene ancora più grande. L’intuizione di don Giussani davvero mi ha accompagnato sempre”.