Caro direttore,
il fine vita torna di moda. Sul Corriere di qualche giorno fa Pierluigi Battista, forse il miglior giornalista italiano, scrive un appello per una legge sul testamento biologico seria, sobria e discreta, lontana da quella omicida del Belgio e dalla proibizione ideologica. Discrezione, sobrietà e dignità della vita: queste sono i concetti-chiave del pezzo di Battista che, moderato, vuole legiferare per evitare le ideologie contrapposte.



Il suo appello suscita due serie di domande. La prima sulle ideologie: si parla di ideologia quando l’idea diventa discorso e soppianta la realtà. In questo caso, a dire il vero, il problema è che non si sa quale sia la realtà e le discussioni sono dovute al fatto che la conoscenza di essa non è chiara. Ciascuno è padrone di decidere di sé sempre o le proprie decisioni sono sempre legate ad altri, a un mondo e a un contesto che non abbiamo deciso noi e da cui non ci possiamo svincolare a piacimento? E soprattutto: il dolore umano ha un senso per cui è in qualche modo sacro o no? Forse abbiamo visioni contrastanti, ma, per ora, la sola realtà è quella del bisogno e dei tentativi di spiegare il fenomeno del dolore e della libertà umana. Sono due grandi temi dell’umanità e preferirei continuare a parlarne, mentre trovo una soppressione violenta dell’intelligenza il trattare questi problemi e i tentativi di soluzione come ideologie.



E poi, la sobrietà e la discrezione non sono a loro volta ideologie? Tanto per fare un esempio ideologico del loro uso, né l’una né l’altra sono state buone consigliere nei regimi totalitari, dove — come diceva Solzenicyn — sarebbe stato sufficiente urlare “mentre ci arrestavano”. Per rimanere sobri e discreti, si è avallata la violenza. Nel nostro caso, tutte le posizioni, per quanto moderate, danno una soluzione ai problemi menzionati: accettano l’uno o l’altro principio. Nulla di male, ma non facciamo finta che la sobrietà e la moderazione siano neutre o neutrali.



Quanto alla dignità, se dobbiamo vedere a cosa corrisponde, non è anch’essa vaga e di difficile interpretazione? C’è chi pensa che sia dignitoso arrivare fino alla fine e chi pensa che lo sia solo se non si è pieni di dolore, confusi di testa e incapaci di controllo. Nei termini di Battista, allora, non è anch’essa ideologica?

A proposito di realtà e di legislazione, ecco la seconda serie di domande. Perché c’è bisogno di una legge? I casi di dolore vero sono stati risolti in questi anni con un tacito, e discretissimo, assenso tra medici e familiari, cosa a cui accenna lo stesso Battista. Perché diffidare del senso comune degli uni e degli altri, il quale di solito sa distinguere perfettamente tra accanimento terapeutico ed eutanasia? 

Visto che non sappiamo rispondere con assolutezza e argomentazioni apodittiche a quelle grandi domande, non sarebbe più ragionevole attenersi al senso comune e alla sua legislazione, vaga ma efficace, che ci ha guidati fino a oggi?

Certo, ci sono stati e ci saranno casi limite — e le tecnologie li accrescono — ma è sempre un errore (persino logico) fare una legge generale su un caso specifico ed estremo. Se non sappiamo le risposte alle grandi domande sul dolore e sulla libertà, non sarebbe giusto un principio di prudenza? Finché non sappiamo, non dovremmo attenerci a ciò che la tradizione ci ha trasmesso? Non sarebbe un atteggiamento meno ideologico e più rispettoso del senso comune?