Una tipica storia all’italiana. Di burocrazia italiana, nel migliore dei casi. Non volendo pensare male. Un esempio di sussidiarietà all’incontrario. Parliamo di un progetto realizzato da più di dieci anni da cooperative sociali, che dà risultati straordinari, porta qualità, fa risparmiare lo stato, motiva le persone. E che, a quanto pare, va chiuso al più presto.
Accade in dieci carceri italiane. Nel 2003 il Dap, Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, avvia una sperimentazione in dieci penitenziari in tutto il Paese, da Torino a Bollate, da Padova a Rebibbia nuovo complesso e casa di reclusione fino a Trani e Siracusa. Con il finanziamento del Dap si ristrutturano a fondo gli impianti delle cucine e si affida la gestione a cooperative sociali che devono formare professionalmente i detenuti. In sostanza si trasformano i cosiddetti lavori domestici – scopino, spesino, cuciniere, lavapiatti, sussidi diseducativi poco qualificanti e di nessun impatto sul recupero delle persone – in lavoro vero.
Che significa lunghi periodi di formazione, affiancamento a professionisti, gestione con criteri di efficienza, adeguamento agli standard di qualità e sicurezza, fino all’inserimento dei detenuti in articolo 21 e misure alternative alla detenzione. E stipendi altrettanto veri, allineati al contratto collettivo nazionale.
La sperimentazione prende il via nel 2004. Dal 2009 il finanziamento non viene più erogato direttamente dal Dap, ma dalla Cassa delle Ammende, l’ente del Ministero della Giustizia che finanzia i programmi di reinserimento in favore di detenuti. Risultati? La gestione d’impresa si nota, eccome. La qualità dei pasti decolla. Il ricorso al cosiddetto sopravvitto, i generi che i detenuti possono acquistare con il proprio denaro, si abbatte. Anche il Dap è soddisfatto. L’ex capo del dipartimento Giovanni Tamburino il 17 marzo 2014 dopo un incontro con i direttori delle dieci carceri dichiara: «Bisogna confrontarsi con l’oggettività che danno i direttori, che vedono le cose concrete, pratiche, quotidiane. Il giudizio è fortemente positivo: non si torna indietro, anzi si va avanti». Con l’esplicito intento di passare dalla fase sperimentale a una strutturale e di diffondere l’iniziativa anche in altri istituti.
Nel frattempo Tamburino con il cambio di governo decade dall’incarico. E nonostante i solleciti delle cooperative e dei direttori a rinnovare l’affidamento del servizio che scade a fine 2014, da via Arenula giunge solo un assordante silenzio. Le cooperative scrivono due lettere, a luglio e ottobre, al ministro Orlando per discutere la questione. Nessun riscontro. Fino a questi giorni. Come risposta, una proroga di quindici giorni, fino a metà gennaio, che non lascia presagire nulla di buono.
Secondo Luigi Ferrarella, cronista giudiziario del Corriere, è «lo scandalo delle coop sociali di Roma fatto pagare ai detenuti che lavorano». In realtà la prefigurata cessazione dell’affidamento è qualcosa di ben poco razionale. Come scrivono i direttori in una lettera al Dap del 28 luglio scorso, le cooperative hanno fatto risparmiare in termini di manutenzione delle strutture, di acquisto di prodotti, utenze, mercedi (le paghe dei detenuti), spese di mantenimento. Ma il guadagno sostanziale «è in termini trattamentali». «I detenuti assunti dalle cooperative», scrivono i direttori, «hanno avuto modo di sperimentare rapporti lavorativi “veri” che li hanno portati ad acquisire competenze e professionalità decisive per il loro reinserimento sociale».
Risultati che però «rischiano di essere del tutto vanificati». Anche la commissione voluta dal ministro Cancellieri e presieduta da un esperto internazionale come Mauro Palma era giunta in precedenza alle stesse conclusioni: «Va incrementato il numero delle sperimentazioni già esistenti», scrivono i saggi incaricati di elaborare proposte per cambiare il modello carcerario. Anzi, bisogna passare «dalla fase della sperimentazione alla messa a sistema del servizio».
Si potrebbe obiettare che la Cassa delle Ammende non è l’ente adeguato a sostenere economicamente questo impegno. Ma sono le stesse linee guida per l’utilizzo dei fondi della Cassa, risalenti a due anni fa, a prevederlo, quando parlano di progetti che svolgono servizi necessari agli istituti penitenziari, gestiti anche da parte di enti privati. Allora, si dirà, sarà una questione di soldi. Non ci sono fondi, occorre fare tagli dolorosi, seppur a malincuore. Ma anche qui è Ferrarella a dare le cifre in due righe: «Sul mercato la manodopera (per una giornata alimentare che costa 12 euro) vale circa 3,60 euro, mentre le coop sociali ricevono dallo Stato meno di 2 euro tra gettone e sgravi fiscali».
Non basta? Allora aggiungiamoci pure una mannaia che potrebbe costare milioni di euro ai contribuenti. Tanto per cambiare, viene da Bruxelles. Nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che il detenuto in esecuzione di pena va pagato come il lavoratore libero. Altrimenti è lavoro forzato. Concreta, concretissima la possibilità di una nuova Torreggiani, la sentenza del gennaio 2013 sul sovraffollamento. E anche in questo caso i numeri sono impressionanti. Parliamo di circa 25mila detenuti che fino ad oggi hanno svolto lavori domestici le cui retribuzioni sono ferme agli anni Novanta. Un esperto come Emilio Santoro ha calcolato che, se i ricorsi cominciano ad arrivare alla Corte europea, il risarcimento per i diritti umani violati dovrà ammontare a 25-26 euro per ogni giorno lavorativo.
Oltre naturalmente ai 3-4 euro di paga mancante. E anche senza uscire dai patri confini, c’è già una sentenza della Corte d’Appello di Roma risalente al marzo scorso che condanna il ministero della Giustizia a rifondere 10mila euro a un detenuto impiegato come giardiniere e 5.700 a un altro recluso che lavorava in lavanderia perché i compensi con cui venivano retribuiti erano fermi ai minimi sindacali in vigore vent’anni fa.
Una strada senza ritorno, quella dei lavoretti (forzati) che non recuperano le persone e ci espongono alle sanzioni comunitarie e non. Da parte loro le cooperative non vogliono credere che la parola fine sia già scritta e che tutto ciò risponda a un disegno. Il 17 dicembre hanno nuovamente scritto al ministro Orlando, al suo capo di gabinetto, il magistrato Giovanni Melillo e al nuovo capo del Dap, il magistrato Santi Consolo. Ma chissà se nei palazzi romani c’è ancora voglia di ingranare la retromarcia, lasciando spazio al buonsenso, alla corretta gestione e a un pizzico di sussidiarietà.