Ogni volta che si parla di carcere l’opinione pubblica rischia di dividersi in due fazione contrapposte: quella dei giustizialisti, che si permettono di andare fuori dalle procure e dalle carceri ad insultare gli arrestati o che ritengono doveroso eliminare tutte le cooperative sociali dalle cucine carcerarie perché una è inquisita, e quella dei buonisti, che invece per tutti i crimini riescono a trovare una giustificazione che levi dalle proprie responsabilità chi li ha commessi.



Ma c’è possibilità di trovarsi tra i due poli opposti? Esiste una sola probabilità di poter guardare ai detenuti come uomini e non come “mostri” o come “incapaci di intendere e di volere”?

A me è accaduto grazie ad una serie di incontri e ad uno in particolare, avvenuto nell’estate del 2010 quando ho conosciuto mio marito, che all’epoca stava scontando il suo ottavo anno nelle patrie galere.



Mi son scoperta innamorata di lui da subito e allo stesso tempo è stato immediatamente chiaro che avrei dovuto fare i conti con il suo passato, con il carico di dolore e di fatica che si portava alle spalle e al quale la detenzione ancora lo costringeva.

Il mondo del carcere è un mondo brutto, duro e faticoso da affrontare, ma è un mondo fatto di uomini: i carcerati, gli agenti, i volontari e le cooperative che danno lavoro ai detenuti hanno ogni giorno la responsabilità e la possibilità di rendere quel luogo un inferno o un’occasione di rinascita, esattamente come lo abbiamo noi sul nostro posto di lavoro e in qualunque altra circostanza siamo chiamati a stare.



La vita di mio marito è cambiata dietro le sbarre perché la sua famiglia e alcuni amici fidati non lo hanno mai abbandonato, perché lui stesso ha deciso di giocarsi nuovamente la propria libertà e di intraprendere un cammino di rinascita, perché ci sono in Italia persone che decidono di affrontare mille ostacoli burocratici e di portare lavoro agli ultimi, ai dimenticati, a quelli che rinchiudiamo perché vorremmo dimenticarci non solo dei crimini che hanno commesso, ma della loro stessa esistenza. 

Quel che dentro il carcere diventa più evidente è in realtà la dinamica normale della rinascita di ciascuno di noi: la possibilità di lavorare e rendere utile il tempo di ogni giornata, l’incontro con qualcuno che non solo ci offre un’occupazione, ma ci propone un amicizia e un cammino insieme (professionale e umano), la prospettiva di un futuro che sembrava oscuro e che un incontro rende invece luminoso e pieno di speranza. Questo è ciò che è accaduto a mio marito, ma allo stesso tempo, seppure con modalità e in contesti molto differenti, è successo anche a me e quando ci siamo incontrati è stato per entrambi naturale e immediato desiderare di percorrere questo cammino insieme, affrontare insieme sacrifici, fatiche, gioie e soddisfazioni.

Per quasi quattro anni abbiamo atteso la scarcerazione, vivendo intanto ogni circostanza come occasione per approfondire il bene che ci vogliamo e sentendo così crescere in noi anche il desiderio di poterci sposare, di poter vivere insieme anche la semplice quotidianità.

Quando all’inizio di quest’anno finalmente le porte del carcere si sono di nuovo aperte è bastato poco più di un mese per radunare amici e familiari e presentarci di fronte all’altare, per affidare a Dio quel che Lui stesso ci ha donato, il cammino avventuroso e meraviglioso di questi quattro anni e tutti i passi che ancora ci verrà chiesto di fare. Siamo stati messi subito alla prova anche in questa nuova condizione (appena uscito dal carcere la crisi ha sottratto a mio marito il lavoro che avrebbe dovuto intraprendere e per due mesi è rimasto a casa disoccupato, lui che anche in carcere ha sempre lavorato!), ma non c’è circostanza o rapporto che nel tempo non ci dimostri che ogni situazione è un’occasione: grazie alla perdita di quell’occupazione da maggio è tornato a fare il fabbro, la sua professione e la sua passione.

La nostra non è una bella favola che il matrimonio ha coronato e nella quale tutto fila liscio dopo anni di sacrifici, ma è la sfida a cui ciascuno è chiamato attraverso le situazioni di ogni giorno. Abbiamo certamente avuto un fidanzamento inusuale, ma è stata proprio la condizione oggettiva del carcere a rendere il nostro rapporto da subito “essenziale” e a segnare ogni passo del cammino. Noi non abbiamo fatto niente di speciale: abbiamo solamente intravisto negli amici una possibilità di compagnia così grande, una condivisione così profonda da non essere scappati di fronte a ciò che la vita ci stava proponendo… ma questo lo possono fare proprio tutti!

(Giuditta Boscagli)