Personalmente ho una certa allergia ai sondaggi, specie quelli che pretendono di tradurre in precisione matematica una materia aleatoria come gli stati d’animo di un popolo. Quello realizzato da Demos e presentato ieri da una doppia pagina su Repubblica non fa eccezione: chiunque a occhi chiusi sarebbe arrivato a conclusioni simili senza dover scomodare le 7mila persone interpellate (ma le risposte buone sono relative a 1009 soggetti). 



Certo, può sorprendere che un personaggio come Giorgio Napolitano, nell’anno supplementare di mandato, abbia visto calare così i consensi: forse paga il nulla di fatto, in termini di riforme; forse l’essersi trovato invischiato nelle rivelazioni di Friedman sulla caduta dell’ultimo governo Berlusconi, o nell’inchiesta palermitana sui rapporti stato-mafia. Anche il calo di consenso nelle forze dell’ordine è il prezzo del comportamento pilatesco sul caso Cucchi.



Detto questo, sapere che il rapporto di “fiducia” degli italiani nei partiti è calato dal 5 al 3 per cento non mi sembra una grande notizia. Fa più specie semmai la caduta di credibilità nei confronti dello stato: ma giunti all’anno sesto della grande crisi è chiaro che lo Stato diventi il grande capro espiatorio (al pari ovviamente delle banche).

Insomma non si salva (quasi) nessuno. Così questi sondaggi sembrano confezionati ad hoc per dare la stura alle mille cassandre pronte a distribuire le loro fosche profezie sull’anno che verrà.

Anche l’eccezionale risultato, praticamente un plebiscito, ottenuto da Papa Francesco diventa pretesto per una conclusione del tutto deprimente: gli italiani lo hanno scelto come ultimo salvagente. Non a caso Ilvo Diamanti nel suo articolo di analisi dei dati scrive che «la sua grandissima popolarità potrebbe suggerire che, ormai, non c’è speranza. E non resta che affidarci alla provvidenza divina…».



Ma siamo sicuri che gli italiani assegnando un 87% di consensi a Papa Bergoglio, lo vedano come un ultimo disperato appiglio? O invece quel dato non è da leggere in direzione opposta: cioè di fiducia verso un uomo che senza retorica e con concretezza paterna suggerisce a tutti di rimettersi umilmente in movimento; fiducia verso un leader che non esclude nessuno, che parla con tutti e che soprattutto quando indica una strada, sa di cosa parla perché su quella strada è lui il primo ad essersi inoltrato? 

Insomma, la fiducia in Papa Francesco (che non risente della stanchezza del secondo anno di pontificato: è praticamente invariata dal 2013), non sembra proprio indice di un  riflusso in una dimensione miracolistica, ma semmai l’opposto. In lui si riconosce la persona franca capace di guardare la realtà in faccia, di non nascondersi i problemi, anche quando questi problemi lo sfiorano da vicino. E capace di affrontarli senza mai tergiversare. 

Papa Francesco non è semplicemente il “Papa buono”, semmai è il leader più decisionista che oggi ci sia sulla scena italiana e non solo. Se le persone guardano a lui con fiducia, è perché vedono che in lui non c’è distanza tra quello che dice e quello che fa. In questo Francesco non è personaggio-rifugio, ma è esattamente l’opposto. È un motivatore. Uno che invita ad uscire allo scoperto, a farla finita con gli alibi e i formalismi, ad allacciare relazioni e a non chiudersi nel guscio del privato.

Potrebbe essere una lettura schematicamente ottimistica del sondaggio. Ma, a parte che è sempre preferibile essere schematicamente ottimisti piuttosto che preventivamente fatalisti, c’è un altro dato della ricerca che induce a una riflessione. È la tenuta della fiducia nei confronti della scuola, l’unica istituzione che non perde punti nella generale débâcle, ma addirittura timidamente rafforza la sua posizione. Fiducia nella scuola è fiducia nel futuro. O meglio, è il segnale che c’è una gran voglia di ri-avere fiducia nel futuro.

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