In questi giorni di festa un pensiero va ad una madre che, dopo aver subito la più atroce delle perdite, è stata sbattuta in prigione con la più infamante delle accuse. In un momento in cui avrebbe avuto bisogno di tutto il sostegno possibile da parte dei suoi cari è stata lasciata sola, abbandonata dai familiari, vilipesa e insultata da persone che nemmeno la conoscono; anni di affettuosa dedizione alla propria famiglia spazzati via in un istante, la sua vita ed il suo passato vivisezionati in dibattiti e talk show televisivi da presunti “esperti” e “opinionisti”.
Eppure, chiunque abbia un minimo di buon senso avrebbe qualche legittimo dubbio leggendo l’ordinanza di custodia cautelare di Veronica Panarello, madre del piccolo Loris Stival, 8 anni, ucciso il 29 novembre scorso a Santa Croce in Camerina (Ragusa), giustificata con un «fondato pericolo di fuga» della donna. Il gip di Ragusa sottolinea la «evidente volontà di volere infliggere alla vittima sofferenze» con «un’azione efferata, rivelatrice di un’indole malvagia e priva del più elementare senso d’umana pietà».«Dai suoi comportamenti», scrive il gip, «si desume che è incapace di controllare gli impulsi omicidi».
L’assenza del più elementare senso d’umana pietà sembra piuttosto attribuibile a tutti quelli che ruotano attorno a questa madre sfortunata, distrutta dal dolore, a partire dai giornalisti e dai magistrati, se è vero che l’hanno incolpata e arrestata solo sulla base di irrilevanti contraddizioni nelle sue deposizioni e di immagini confuse e sgranate ricavate da video di sorveglianza i cui orari non sono evidentemente sincronizzati tra loro.
Gli stessi inquirenti che li hanno visionati pare abbiano pareri discordanti: l’auto è o non è quella della Panarello? Dicono sia “compatibile” per colore e forma, ma come essere sicuri che sia proprio la sua, visto che la targa è illeggibile? E quella figura sfocata e indistinguibile appartiene proprio al piccolo Loris? Il padre stesso non ne è certo.
In quanto alle presunte contraddizioni della Panarello, come ci si può aspettare che una madre alla quale hanno appena annunciato che il figlio è stato ucciso mantenga la lucidità e la concentrazione necessarie per rammentare ogni particolare e rispondere accuratamente ad ogni domanda? Quale madre, confidando fiduciosa nelle autorità per far luce sull’omicidio del figlio e mai immaginando di poter essere ritenuta l’assassina della propria creatura, potrebbe supporre che una semplice esitazione, un tralasciare un particolare o ricordarselo successivamente, possa rivelarsi un’arma da usare contro di lei?
Nella prima deposizione la donna afferma di aver lasciato il bambino a 500 metri dalla scuola, nella seconda “a pochi metri”, dice di essere uscita verso le 8.15 per portare i figli a scuola, mentre la videocamera installata davanti all’abitazione dice che è uscita alle otto e trentadue (sarà regolata sullo stesso orario?), piccole divergenze alle quali nessuno farebbe caso ma i giornalisti le colgono al volo e titolano “la madre ha mentito quindi è colpevole”. E, di colpo, tutti ci credono (lo dice la tivù!) e si convincono che queste imprecisioni siano la prova inconfutabile, la pistola fumante, l’evidenza che non si può negare. “E’ stata lei!”.
Già da qualche giorno, dopo aver abbandonato la “pista” poco credibile del cacciatore che aveva ritrovato il cadavere, la macchina mediatica aveva puntato i riflettori sulla madre. Una madre amorevole che si trasforma in spietata assassina è una notizia troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire, risveglia le più nascoste paure, l’angoscia primordiale dell’abbandono e della perdita del legame affettivo, quindi fa presa, fa audience, assicura articoli da prima pagina per settimane.
I media non attendono risultanze certe o prove sicure, non rispettano il dolore altrui, calpestano sentimenti con la più noncurante supponenza, eppure nell’immaginario collettivo rappresentano l’oracolo che tutto sa e tutto vede. Facile intuire che persino chi indaga possa essere condizionato da questa pressione mediatica incessante, fatta di notizie riportate con il copia-incolla su ogni testata, e finire col farsi una convinzione errata anche se sicuro di averla elaborata autonomamente. La persuasione occulta opera a livello inconscio, i contenuti sono metabolizzati al di sotto della soglia di coscienza, scavalcando le difese oggettive dell’individuo e portandolo ad agire seguendo una direzione precisa.
Come spiegare altrimenti l’evidente contraddizione contenuta nella stessa ricostruzione dell’omicidio da parte degli inquirenti?
E’ scritto infatti nell’ordinanza che la madre sarebbe «incapace di controllare gli impulsi omicidi», quindi avrebbe agito in base ad un raptus improvviso e incontrollabile, ma questa affermazione mal si concilia con la tesi secondo la quale lei avrebbe premeditato e organizzato l’omicidio del figlio con lucida freddezza e determinazione. Dato che un’auto scura, ripresa a centinaia di metri, si aggirava quella mattina stessa nei pressi del Mulino Vecchio, gli inquirenti ne hanno dedotto che la donna sarebbe andata a fare un sopralluogo per verificare dove scaricare il cadavere del figlio dopo averlo ucciso. Con questo proposito lo avrebbe fatto salire in auto per portarlo a scuola e, un minuto dopo, fatto ridiscendere dandogli le chiavi di casa, perché aveva già pianificato l’omicidio nei minimi particolari. Per rendere più agevole il trasporto del corpo avrebbe parcheggiato l’auto in garage, dopo aver accompagnato il più piccolo alla ludoteca, e sarebbe salita nella propria abitazione dove sapeva di trovare Loris; nello spazio di 36 minuti gli avrebbe legato i polsi dietro la schiena e lo avrebbe strozzato con una fascetta da elettricista. Una vera e propria esecuzione! Avrebbe trascinato poi il corpicino esanime per tre piani di scale fino allo scantinato e, dopo aver scaraventato il figlio agonizzante nel bagagliaio dell’auto, avrebbe parlato tranquillamente al telefono con il marito, infine si sarebbe diretta al Mulino Vecchio per sbarazzarsi del cadavere. Dopodiché sarebbe andata a seguire il corso di cucina, come se nulla fosse accaduto.
Probabilmente, questa ricostruzione risulterebbe inverosimile persino come trama per un giallo fanta-poliziesco. Eppure la maggior parte dell’opinione pubblica l’ha accettata e digerita senza obiettare.
E quale sarebbe il movente? Non si sa, ma poco importa perché secondo il giudice «la mancanza di elementi per comprendere il movente del gravissimo gesto non assume rilevanza».
Viene da chiedersi se questi magistrati si rendono conto che stanno parlando della madre della vittima, della donna che più ha amato Loris, o se per deformazione professionale — visto anche il territorio in cui operano — si sono ormai abituati ad analizzare solo delitti commessi da criminali incalliti. Un bravo psicanalista sarebbe forse anche tentato di indagare il rapporto che il Gip e gli altri accusatori hanno avuto con la propria figura materna di riferimento. In ogni caso, sembra che ignorino completamente le analisi psicologiche e criminologiche riguardanti le madri figlicide.
Le donne che uccidono i propri figli, infatti, appartengono a tipologie ben precise ed evidenziano chiari segni di disturbi psichici o della personalità, spesso provengono da ambienti violenti e degradati oppure agiscono sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Tuttavia, la caratteristica che le accomuna è che, una volta resesi conto di ciò che hanno fatto, crollano e ammettono la loro colpa. Di solito forniscono anche una farneticante motivazione per il loro gesto e, spesso avevano pianificato di suicidarsi a loro volta, non riuscendoci.
L’altra possibilità per una madre di sopravvivere al delitto commesso in un attimo di follia (non certo premeditandolo) è rimuovere dalla propria mente il fatto, un meccanismo inconscio definito dalla psichiatria “amnesia dissociativa”, dettato dall’istinto di sopravvivenza perché l’emersione del senso di colpa arrecherebbe una sofferenza insopportabile che la spingerebbe all’autodistruzione. Ma rimuovere l’accaduto non significa semplicemente non ricordare con precisione le tappe di un percorso, significa cancellare tutto, anche la morte stessa del figlio continuando a considerarlo vivo, oppure negare di aver mai avuto un figlio. Una madre che ha agito in preda ad un raptus omicida e ha rimosso l’accaduto dimostra chiari segni di alterazione e di confusione mentale, non ricorda nulla, si riferisce al figlio come fosse vivo, si inventa una storia parallela.
Il tentativo poi del Gip di attribuire il presunto istinto omicida della Panarello agli episodi depressivi avuti in età adolescenziale rivela l’esistenza di un pregiudizio penalizzante nei confronti di chi soffre, o ha sofferto, di un disturbo psicologico tra i più comuni ed evidenzia una preoccupante ignoranza delle più elementari nozioni di psicologia, lacuna inammissibile in chi è preposto a giudicare con imparzialità e competenza. Non esistono, infatti, nella storia della criminologia, casi di madri che, non avendo mostrato segni recenti di squilibrio mentale, siano talmente malevoli e spietate da premeditare l’omicidio del loro bambino, portarlo a termine sbarazzandosi addirittura del cadavere e, se accusate, continuino a difendersi e a negare.
Ovviamente, il pensiero corre per analogia ad un’altra donna accusata di aver ucciso il figlio senza mai ammettere e confessare il proprio crimine, Annamaria Franzoni.
Anche in quella circostanza, un caso che inizialmente era stato presentato come la tragica morte di un bambino di tre anni a causa di un aneurisma, è stato completamente stravolto dai media e dagli inquirenti, al punto che persino gli stessi genitori e gli avvocati difensori si sono convinti che si sia trattato di un omicidio, impostando la difesa sulla innocenza della donna invece di dimostrare che il fatto semplicemente non sussiste.
L’improvvisa rottura di un vaso sanguigno nel cervello e l’aumento di pressione all’interno della scatola cranica conseguente alla inondazione di sangue può provocare la lacerazione dei fragili tessuti della testa. Sono evenienze rare ma già capitate (al musicista Ugo Solari, la cui testa è “esplosa” durante un concerto, e al giocatore professionista di scacchi russo, Nikolai Titov).
D’altra parte, non occorre essere investigatori per notare vere e proprie assurdità nella ricostruzione del crimine di Cogne da parte della Corte d’Appello. La Franzoni avrebbe commesso il delitto con ancora indosso il pigiama e gli zoccoli calzati, salendo in ginocchio sul letto. Secondo la Corte, il fatto sarebbe avvenuto “nell’intervallo compreso tra le 8.08/8.10 (ora di uscita del figlio Davide) e le 8.15/8.16 (ora della sua uscita da casa); dopo aver massacrato il figlio più piccolo, la donna trova il tempo di compiere, con estremo controllo di sé e recuperata la lucidità, le prime operazioni di riassetto della scena del delitto e di occultamento delle prove (sparizione dell’arma del delitto, cambio delle scarpe); al suo rientro, prima dell’effettuazione delle telefonate al medico e al pronto soccorso, l’imputata avrebbe completato il riordino della scena del delitto”.
Dinanzi ad una tale ipotesi, viene spontaneo chiedersi come un giudice, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, possa davvero credere che una persona, in soli 6 minuti e mezzo, abbia il tempo di uccidere a martellate il proprio bambino, ripulirsi lavandosi e asciugandosi anche i capelli, visto che verosimilmente qualche spruzzo di sangue dovrebbe per forza averli imbrattati (a meno che non avesse indossato una cuffia, seguendo il manuale del perfetto assassino), cambiarsi d’abito, cancellare ogni traccia di sangue da doccia, lavandino e pavimento e nascondere l’arma del delitto. Sfido chiunque a compiere una tale operazione in pochi minuti.
Eppure nemmeno la Cassazione ha mosso rilievo su questa inverosimile ricostruzione o eccepito che la lucidità ipotizzata della donna, dopo aver ucciso il figlio, è difficilmente compatibile con un attacco di follia.
I giudici hanno ravvisato la prova della colpevolezza dell’imputata nella “assenza di altre ipotesi plausibili”.
Ed è ovvio che non ci sia una spiegazione razionale per appurare la dinamica dell’omicidio perché non si è mai verificato, così come l’arma del delitto non è mai stata rinvenuta semplicemente perché non esiste.
La perizia dell’accusa ha stabilito che il piccolo era stato percosso in regione frontale con ben 17 fendenti. Stranamente le altre parti del corpo, dalle sopracciglia in giù, non presentavano la minima lesione. Come si può pensare che chiunque si sia accanito sul bambino in preda ad una incontrollabile foga omicida abbia colpito con perfetta precisione, senza mai sbagliare mira e senza ferire anche il volto, le spalle o il torace?
In base alle notizie riportate dai giornali, ci si immaginava che la testa del bambino fosse stata ridotta in poltiglia, invece aveva ferite superficiali, profonde poco più di 2 millimetri e lunghe qualche centimetro. Com’è possibile che da ferite di appena 2 millimetri il sangue sia schizzato fino al soffitto? Lo stesso professor Viglino, perito dell’accusa, ha dichiarato: “È ben difficile che stante la loro dislocazione si siano potuti produrre spruzzi con proiezione di sangue a distanza se non di qualche centimetro a seguito della lesione arteriosa”. Gli spruzzi a distanza non possono che essere riferibili al cosiddetto “vomito a getto” (che può arrivare fino a 6 metri) tipico delle vasculopatie cerebrali acute, ed è più che ovvio che se il sangue, misto a vomito, ha sporcato soffitto, pareti e comodino, abbia anche sporcato il pigiama buttato sul letto. D’altronde quale assassino così avveduto da nascondere perfettamente l’arma del delitto e ripulire la scena del crimine, lascerebbe il pigiama indossato durante l’omicidio sul letto?
Nell’udienza, l’unica parvenza di movente per giustificare l’uccisione del piccolo Samuele suggerita dall’accusa era che la madre fosse ossessionata dalla sua gracilità e dal fatto «che aveva la testa grossa».
Ora, esiste una rara patologia del neonato, chiamata cefaloematoma, che causa una tumefazione esterna del cranio provocata da emorragia tra il periostio e le ossa dovuta ad un trauma durante la nascita oppure a una disfunzione dell’apparato circolatorio. E’ possibile che non gli fosse mai stata diagnosticata e che abbia in seguito provocato l’emorragia cerebrale che lo ha ucciso.
L’esame necroscopico sul corpo del piccolo Samuele ha evidenziato una emorragia intraventricolare e una emorragia subaracnoidea, senza tracce di ematoma extradurale o sottodurale, questi ultimi generalmente tipici delle lesioni traumatiche, mentre l’emorragia subaracnoidea è tipica della rottura di lesioni vascolari.
Allora perché l’ipotesi della morte naturale non è stata presa in considerazione nemmeno dai difensori o dalla famiglia Lorenzi?
Un solo medico, il dottor Giovanni Migliaccio, dirigente dell’unità operativa di neurochirurgia all’ospedale Fatebenefratelli di Milano, ha sempre sostenuto che il bambino è morto per cause naturali, fornendo anche una sua spiegazione di quanto accaduto: «Nel cervello del bimbo si rompe un aneurisma, cioè l’anomala dilatazione congenita di un’arteria, e si produce un versamento ematico; il sangue finisce negli spazi subaracnoidei, che sono le cavità naturali in cui è contenuto il liquor cerebrospinale. L’aumento della pressione endocranica scatena una crisi epilettica. Il cervello in sofferenza si gonfia rapidamente. Poiché la scatola cranica non è espansibile, l’aumento di volume dell’encefalo crea inevitabilmente una compressione del tronco cerebrale. La crisi epilettica dà luogo a contrazioni violente del capo e degli arti; la testa e le braccia vanno a sbattere contro la spalliera del letto e contro il comodino, il che spiega le fratture del cranio e le contusioni al secondo e terzo dito della mano sinistra».
Il dottor Migliaccio, che ha ispirato un libro sul delitto di Cogne e messo a disposizione della giornalista-autrice documenti clinici e carte processuali, ha dichiarato: «Credo che la famiglia, già scottata da indagini lacunose e sentenze ingiuste, abbia scelto, sia pure a malincuore, il male minore per evitare alla condannata una pena ancora più pesante.».
Anche in questo caso il ruolo dei media è stato determinante; solo nel 2002 furono pubblicati 1.300 articoli sul delitto di Cogne, le illazioni dei giornalisti e i processi televisivi spaccarono il paese in colpevolisti e innocentisti, al processo d’appello i curiosi arrivarono sul posto alle cinque del mattino sgomitando per conquistarsi uno spazio vicino all’entrata. La maggior parte della gente esprimeva giudizi senza conoscere gli elementi su cui si basava l’accusa e rivendicava l’autenticità delle proprie convinzioni, affermando che erano basate su sensazioni e riflessioni proprie, senza rendersi conto che erano state invece abilmente pilotate dai media.
L’impressione è che il dubbio albergasse anche nei giudici ma che, pressati da tante persone che la ritenevano colpevole e di fronte ad una tale attenzione mediatica, non abbiano avuto il coraggio di riconoscere il loro errore. Come spiegare altrimenti la drastica riduzione di pena da 30 a 16 anni lasciando addirittura che la Franzoni aspettasse in casa propria il verdetto definitivo della Cassazione? Se fossero stati davvero convinti della sua colpevolezza, avrebbero lasciato libera una donna considerata pazza che avrebbe potuto ammazzare anche gli altri due figli?
Purtroppo, anche nel caso dell’omicidio del piccolo Loris, si intravede il rischio che gli inquirenti, incalzati dai media, cerchino di costruire l’impianto accusatorio sulla base delle loro convinzioni. Già l’orario della morte, inizialmente stimato dal medico legale intorno alle 10.00/10.30, quando la Panarello era al corso di cucina a Donnafugata, è stato modificato per farlo combaciare con quello in cui la madre, tra le 8.49 e le 9.25, avrebbe incontrato e ucciso il figlio in casa. In principio i giornali avevano parlato di una bambina, compagna di scuola, che aveva visto Loris scendere dall’auto della mamma ed entrare in un chiosco per comprarsi un panino, di una vigilessa che aveva visto l’auto della madre dirigersi verso la scuola, insomma sembrava che in molti avessero visto il bambino e la madre quella mattina, poi i testimoni sono svaniti nel nulla.
E’ lecito quindi chiedersi se il Gip, dopo una presa di posizione così netta e dura nei confronti della Panarello, avrebbe l’onestà e il coraggio di ammettere il proprio errore se si trovasse in presenza di elementi che confutano la sua tesi, oppure si ostinerebbe a sostenere la sua ipotesi accusatoria contro ogni logica, come fece la procura di Bari che indagava sul caso della morte dei due fratellini Pappalardi, a Gravina di Puglia.
Qualcuno forse ricorderà la tragica vicenda che portò Filippo Pappalardi in carcere, accusato di avere ucciso e occultato i cadaveri dei due figli, Ciccio e Tore, di 11 e 13 anni. I media si accanirono su di lui come bestie fameliche sulla preda, dipingendolo come un mostro, un padre-padrone demoniaco e crudele, che rischiò persino il linciaggio da parte degli altri detenuti. Se un altro bambino non fosse precipitato accidentalmente nel pozzo in cui erano caduti mesi prima i due fratellini, rivelando così l’atroce verità sulla loro scomparsa, il padre sarebbe stato sicuramente incolpato del loro omicidio e condannato, anche in assenza di prove certe.
Furono in molti a ritenere che i due ragazzini avrebbero potuto essere trovati ancora vivi se la procura non avesse diretto subito i propri sospetti sul padre, concentrando tutti gli sforzi investigativi alla ricerca di indizi che suffragassero la loro debole tesi. I poliziotti frugarono la campagna circostante alla ricerca dei cadaveri sepolti dal padre anziché interrogare gli altri bambini per capire dopo potevano essere scomparsi i due fratellini. E anche quando la dinamica dei fatti fu chiara a tutti, il procuratore si ostinò a difendere il quadro probatorio elaborato in precedenza, rifiutando di rilasciare quel povero padre distrutto dal dolore e impedendogli di assistere al funerale dei figli da uomo libero. Questo atteggiamento scatenò la rabbia di molti cittadini che scrissero al Presidente della Repubblica, messaggi che oggi varrebbe la pena di rileggere.
Alla madre di Loris è stato negato il diritto di piangere sulla bara del figlio. Chi le chiederà scusa quando si scoprirà la verità? — ma soprattutto, qualcuno la cercherà davvero questa verità?