Santa Croce Camerina, Ragusa. Come si fa a non parlarne, come ragionarci su, senza scadere nella curiosità morbosa, o in un banale appello al buon senso. Non è la Sicilia delle stragi di mafia, che poi è dappertutto, come si vede dalle cronache. E’ quella della mafia che racconta Montalbano: quella delle piazze e delle chiese giallo ocra infiorettate da ghirigori barocchi, che seguono i movimenti del mare. Un paese come tanti, oggi sotto i riflettori per un omicidio efferato, Garlasco, Cogne, Brembate.
Mi chiedo sempre il perché di quest’attenzione morbosa sul crimine, quando ogni giorno muore una donna ammazzata, ogni giorno si uccide un uomo, ogni giorno un altro muore per strada, o per droga, o in un regolamento di conti. Se l’assassino di Loris Stival l’avessero trovato subito il caso non ci sarebbe, e su quel bambino non si arrovellerebbero criminologi, psicologi, sociologi, pedagogisti e tutto il carrozzone mediatico che si abbevera alle fonti del macabro. Non sarebbe stata meno atroce la sua morte, ma sarebbe corsa via dalle nostre intorpidite coscienze, al più con un sospiro, un brivido nei più sensibili.
E’ il giallo sporcato dal noir, che ci appassiona, inutile negarlo, scandalizzati. L’attesa del colpo di scena, l’analisi intima dei protagonisti, come ciascuno li legge da un’inquadratura, dalle righe vergate da cronisti in caccia di indizi minimi, e confusi, che confondono. Come se si trattasse di un telefilm. Solo che il commissario speciale non arriva quasi mai, al massimo si tratta di équipe, e se manca l’eroe il fascino cala. Le squadre, poi, non sono mai quelle americane che piombano e sciolgono gli intrighi più turpi, sventano il male e ristabiliscono ordine e fiducia nella giustizia. Anzi quando arrivano i Ros, quando si intabarrano nelle tuniche bianche, che poi oggi fanno pensare all’ebola, monta un ineluttabile scoramento, serpeggia il pensiero che non si arriverà a capo di nulla. Che non è vero, ma insomma, ci vuole tempo, col tempo l’interesse scema, si aprono nuove pagine all’orrore, più fresche, più semplici da capire.
Dobbiamo come capita ad ogni fattaccio fare il processo ai media? Ce ne sono ottime ragioni, tutti i giorni. C’è un modo di scavare nella notizia totalmente indifferente ai volti, alle persone, irrispettoso di un ambiente, della sua storia, dei legami reali, soprattutto se si tratta di piccoli paesi. Ora tutti a dire che a Santa Croce Camerina vige un’omertà colpevole, perché la Procura di Ragusa ha riscontrato troppi silenzi agli appelli affannati degli inquirenti. Può darsi, è triste vedere che la gente gira il capo, assalta i giornalisti, rifiuta qualsiasi informativa che possa fornire spunti all’inchiesta.
E’ triste, è anche comodo disegnare il solito ritratto di una terra che non cambia mai, quando pare che tutto stia cambiando. Può darsi che a Santa Croce semplicemente non sappiano che dire. Che non vogliano passare per il solito brandello di Sicilia atavica, verghiana, dove si affossano ragazzini e si occultano cadaveri e bestialità umana. O forse dovrebbero alimentare chiacchiere sulla madre-ragazzina del piccolo Loris, su quel padre sempre lontano, ventilare voci su una famiglia affatto da Mulino Bianco, e tirar fuori qualche licenza, che giustifichi un assassinio?
Un conto è stanare dissapori, scovare fors’anche tradimenti e inimicizie, un conto farne il movente di un assassinio, e di un bimbo di otto anni. Strangolato e gettato, forse ancora vivo, in un canalone, coi pantaloni abbassati e senza slip. Che hanno fatto a Loris, chi, e con l’appoggio di chi? Perché la mamma ha dato una versione non confermata di quelle ore mattutine, possibile che non ricordi se e quando ha portato un figlio a scuola? Perché la mamma non ha cercato il bimbo dalle maestre, ma si è rivolta subito agli agenti di polizia? Una reazione dettata dal panico? Perché il papà ha reagito sicuro con un “questa volta lo ammazzo”? Chi, e quali altre volte ne ha avuto il pensiero?
Queste domande è lecito porsele, è ragionevole, è giusto che l’informazione le diffonda, anche perché certe parole sgocciolate dalle cronache non arrivano forse a caso, ma servono a spaventare, a squarciare coltri di paura, silenzio. Toccherebbe equilibrare le notizie e il rispetto, non enfatizzare mai per fregare il collega più esitante, forse solo più serio, per compiacere la vanità dell’autore di quella soffiata. La verità può far male, ma deve venir fuori tutta intera, non serve sfrucugliarla. Non è detto che i segreti più torbidi dell’animo, delle famiglie, del vicinato siano di dominio pubblico. Ed è giusto che resti in silenzio, prudente, chi ci vive, tra quelle strade, chi incontra i parenti, chi incrocia le vite irrimediabilmente segnate dal dolore o alla vergogna.
Tutti abbiamo capito che qualcosa nei racconti finora tracciati non quadra. Bisogna avere la pazienza di far luce, co tempi necessari, evitando di creare mostri, di incitare le piazze ai roghi, o ai giudizi tombali su una comunità. Chi sa parli, e chi non sa non sia accusato di tacere perché colluso, o vigliacco. Chi non sa ricordi, preghi, tenga vivo negli occhi il volto di quel bimbo che ha tanto sofferto, eppure aveva un sorriso così puro, così fiducioso e lieto.