Doveva finire così. Papa Francesco e Padre Benedetto alla fine hanno parlato in modo esplicito e chiaro, così che a tutti coloro che desiderano seguire la Chiesa di Roma siano evidenti le condizioni e la prospettiva di questa sequela. Improvvisamente tutti i dubbi e le insinuazioni sui due Pontefici, dalla loro legittimità fino al loro magistero, si sono sciolti come neve al sole davanti alle parole pronunciate rispettivamente al quotidiano argentino La Nación e a quello tedesco Frankfurter Allgemeinen Sonntagszeitung (edizione domenicale della Faz). 



Due interviste concesse ai giornali dei loro paesi di origine e rese pubbliche quasi in contemporanea con una casualità che appare quanto meno interessante. E se Benedetto sostiene che avrebbe voluto farsi chiamare Padre, e non Papa, dopo la rinuncia del 2013, Francesco mette una parola fine alla soluzione “facile” della comunione ai divorziati risposati optando per una “integrazione” che i due uomini vestiti di bianco esplicano nello stesso modo e negli stessi termini: potrebbero, ad esempio, fare i padrini e le madrine di Battesimo (e dunque di Cresima) e si dovrebbe valutare maggiormente la loro fede all’atto del matrimonio così da rendere — dove occorre — più veloci le procedure per un’eventuale causa di nullità. 



Insomma: sintonia totale. Benedetto arriva alle cronache italiane tramite lanci di agenzia (che quindi vanno cautamente contestualizzati), mentre Francesco è trascritto quasi fedelmente da alcuni siti vicini agli ambienti della Santa Sede. Entrambi dicono parole destinate a far rumore. Ratzinger, infatti, si dichiara in buona salute e sostiene la scelta della rinuncia al ministero petrino come inevitabile viste le sue condizioni fisiche e psichiche. Afferma di non voler assolutamente entrare nel dibattito sinodale sul matrimonio chiosando una volta per tutte che “la gente sa chi è il vero Papa”. E lui, Francesco, difende il “metodo sinodale” scelto, cita più volte Benedetto, motiva le sue decisioni sulla Curia Romana, e si pone come garante della sana dottrina, invitando i cattolici a leggere tutte le notizie sul Sinodo e non solo gli slogan coniati dai giornali che vogliono alimentare menzogna e confusione. 



In poche battute coloro che avanzavano ombre di illegittimità sull’elezione di Bergoglio o sulle dimissioni di Benedetto si ritrovano parole luminose che — ancora una volta — mostrano nella scelta del Collegio cardinalizio in favore di Francesco un’indicazione che, soprattutto a posteriori, emerge effettivamente come “guidata dall’alto” e capace di rigenerare la Chiesa con quelle forze e con quelle energie di presenza che Benedetto dichiara di non aver avuto più. 

Ora le cose sembrano cambiate e i due uomini si mostrano consapevoli delle resistenze interne alla Chiesa per questo loro avvicendamento e quindi dei surrettizi tentativi di metterli l’uno contro l’altro, citandoli a sproposito e tirandoli spesso per la “giacchetta” evidenziando una poca propensione a fidarsi di Cristo e del Suo Santo Spirito.  

In risposta a tutto ciò, come amici, i due confessano di avere contatti e confronti frequenti, manifestano il desiderio che nella Chiesa ci si incontri e ci si parli non per “mettere in discussione la dottrina”, ma per permettere ad ogni uomo e ad ogni donna di buona volontà di incontrare ancora una volta Cristo, dal di dentro della propria storia e delle proprie ferite; si sostengono reciprocamente.

Sullo sfondo restano, purtroppo, le critiche sguaiate, gli appelli inopportuni, le tesi fantascientifiche di un cattolicesimo o di un ateismo devoto che — soprattutto in Italia — fa fatica a seguire la strada di Francesco, non accettando fino in fondo che la Chiesa è una vita in continua maturazione al punto che lo stesso Ratzinger, oggi, non solo corregge alcune sue tesi del 1972 decisamente più aperturiste sulla Comunione ai divorziati risposati, ma si confronta con i modi e con le parole di Bergoglio con una capacità di figliolanza davvero impressionante. 

Il vero dramma per la Chiesa cattolica di questi nostri tempi si gioca, quindi, tra coloro che credono davvero nell’Incarnazione (e nel fatto che il divino — da allora — giunga a noi attraverso l’umano) e coloro che vivono l’esperienza cristiana come qualcosa di immutabile e di “sempre uguale a se stessa”, da ripetere brandendo le regole e il deposito della fede a guisa di un’arma intimidatoria e non da considerare come un’offerta gratuita di Dio al cuore dell’uomo. Anche Santa Caterina — o lo stesso Dante — se vivessero oggi (dopo il Vaticano I) si guarderebbero bene da usare certi toni verso il Papa che, nel loro tempo, erano invece del tutto legittimi per la coscienza che la Chiesa aveva di sé. La Chiesa cresce e matura verso la “verità tutta intera”, conservando intatto ciò che Papi e Concili hanno circoscritto come immutabile e definitivo, esprimendo con parole nuove (che sgorgano dal rapporto contemporaneo con Cristo) le stesse cose che il Maestro insegnava ai suoi discepoli sulla riva del Mare di Galilea. 

Vediamo, anno dopo anno, sorgere una Chiesa sempre più libera e sempre meno cortigiana del potere, sentiamo che questa cortigianeria non avviene solo nelle opache relazioni che essa talvolta ha intrattenuto col potere politico, ma anche dall’essere disponibile a porre la propria fede come siepe alle certezze di una società borghese che fa finta di “difendere” la Chiesa, ma che in realtà vuole solo usarla per il proprio disegno di potere. È quello che fanno anche i signori del Califfato con alcuni dettami dell’islam. Ed è quello che l’Oriente bizantino ha dovuto subire lungo i secoli fino ad ai tempi nostri, fino allo stesso governo russo che oggi dispone del potere sugli Urali. 

È il pericolo che tuttavia rischiamo ognuno di noi quando Cristo smette di essere Uno da seguire per diventare Uno che ci serve. A volte è dura ammetterlo e cambiare. Ma con due Papi così appare difficile continuare a negarlo a lungo. Pena l’effetto di trasformare l’amore di un tempo in un nuovo latente furore, in una esplicita e scomposta rabbia, in un ben camuffato grido che sgorga dal profondo del nostro dolore e della nostra solitudine. Un grido che, non riuscendo più a diventare preghiera, rischia di trasformarsi violentemente in un ostentato urlo di battaglia.

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