Non è facile, nel nostro tempo, trovare un’ipocrisia paragonabile a quella che ci salta agli occhi ogni volta che la parola peccato compare nelle nostre conversazioni. Ne ha parlato, con la sua terribile semplicità, Papa Francesco ieri, a Santa Marta, commentando l’episodio biblico di Davide e Betsabea. 



Davide, dice, considera ciò che ha fatto (non solo un adulterio, ma anche, indirettamente, un omicidio) come un problema da risolvere, qualcosa per cui è necessario trovare una soluzione. Tutti noi, ha detto, siamo tentati di fare altrettanto. Il fatto è che non è un problema: è un peccato. 

La cultura che si definisce moderna ha in odio questa parola, anche se poi la confonde (secondo me in malafede) con la colpa. Ora, sarebbe sbagliato sostenere che nella Chiesa non si sia mai usato lo spauracchio del peccato per asservire le coscienze. È successo. Ma di qui a confondere il senso di colpa (che è sempre schiavizzante) con quello del peccato, ce ne corre. 



Quello che irrita, nella parola “peccato”, è il suo riferimento alla libertà. Essa ci ricorda che il destino è inchiodato alla nostra libertà. E tante volte ci piacerebbe sbarazzarci della libertà. Meglio la dialettica storica, meglio i riflessi condizionati, meglio le palude della coscienza di cui parla Pirandello, meglio le reazioni inconsce, meglio il Dna e le sinapsi neuronali, meglio tutto. 

Ma ecco un bel brano di Péguy, molto illuminante e pieno d’ironia, tratto dal Mistero dei Santi Innocenti.

Non mi piace, dice Dio, l’uomo che non dorme.
Colui che, nel suo letto, arde d’inquietudine e di febbre.
Sono favorevole, dice Dio, a che ogni sera si faccia l’esame di coscienza.
È un buon esercizio.
Ma poi non bisogna torturarsi al punto da perdere il sonno.
A quel punto la giornata è fatta, ben fatta e non c’è da rifarla.
Non ha senso tornarci sopra.
Quei peccati che ti danno tanta pena, ragazzo mio,
bè, è semplice:
amico mio, bastava non commetterli
quando eri ancora in tempo.
A questo punto è fatta: dormi. Domani non li rifarai più



Tutta l’irritazione che la parola “peccato” ci trasmette si lega a quell’impertinente versetto, bastava non commetterli, che se la ride della dialettica storica, di Freud e del Dna. Perché alla fine è così: tutto il problema (questo sì, è un problema) di una buona educazione alla libertà – che è l’educazione fondamentale – sta nell’educare all’idea che le cose si possono fare e non fare, e che questo dipende soprattutto da noi. 

Quello che irrita è tutta questa importanza che il cristianesimo dà all’uomo. Importanza vuol dire responsabilità, e questa è un’altra parola poco popolare (tranne quando si tratta di accusare qualcun altro, allora saltano fuori le “precise responsabilità”). 

Noi odiamo queste due cose insieme, e Péguy ce lo ricorda con un sorriso. Preferiamo cullarci nel nostro limbo moderno di esseri perennemente irrisolti. Come disse un amico: ci infuriamo se qualcuno ci pesta un piede sul tram e non facciamo una piega se calpestano la nostra dignità. 

Il rischio è che non teniamo più a nulla, che il mondo (ivi compresa la nostra vita) si riduca per noi a una specie di macchina da far andare avanti. Se fosse così, ci sarebbero al massimo errori, inadempienze, disattenzioni. 

Ma prima o poi la libertà irrompe nella nostra vita, con il suo carico di peccato, e allora scatta l’alternativa: o cominciamo a prenderci sul serio, o dovremo accontentarci del lexotan (o del viagra). 

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