In questi ultimi due giorni sta girando per i vari notiziari, sia cartacei che in rete, la storia di una suora a cui è stato concesso di riavere la figlia bloccando la procedura di adottabilità che lei stessa aveva richiesto e sottoscritto al momento della nascita avvenuta nel dicembre 2011.

La vicenda è complessa e sfaccettata, soprattutto ingarbugliata: circolano diverse versioni, difficile venirne a capo. Andiamo a tentoni, dunque, sui pochi dati certi, o almeno concordanti; nel gennaio 2012, ormai due anni fa, una bambina di soli 20 giorni di vita viene affidata a una coppia selezionata affidataria del maceratese. La bambina ha in atto una procedura di adottabilità perchè la madre non la ha riconosciuta alla nascita e nemmeno entro i tempi, 3 mesi, stabiliti dalla legge. 



La madre, suora, 44 anni, congolese, in Italia per frequentare l’Università Pontificia,  riferisce uno stupro, da parte di un sacerdote, anche lui congolese, di cui non rivela il nome, né il luogo, né le circostanze (già su questo troverete versioni diverse e piccanti o drammatiche). Rimane incinta: la sua congregazione, le “Petites Soeurs de Nazareth” le offre aiuto materiale e psicologico se decide di tenere il bimbo, ma al di fuori della vita monacale. Per rimanere tra le consorelle deve consegnare il nascituro a una famiglia normale: è la decisione che hanno dovuto prendere anche le suore bosniache stuprate durante la guerra nella ex-Jugoslavia, o più di recente in India, niente di nuovo.



Lei decide per l’affidamento, sembra convinta, lo riferisce il personale medico dell’ospedale di Fano in cui partorisce. Torna in convento. Dopo più di tre mesi il ripensamento: qui si riapre il ventaglio di ipotesi, tra le quali domina quella che le consorelle non la “abbiano voluta” e “reintegrata” nel ruolo di responsabilità che aveva prima. 

Allora rivuole la figlia, una vita normale: il Tribunale dei Minori revoca la nomina del tutore provvisorio e dispone che la bimba rimanga presso la coppia affidataria – e dove si trova tuttora – ma riconosce alla mamma biologica il diritto di frequentarla alla presenza di una psicologa. Insomma, viene dichiarato il non luogo a procedere alla dichiarazione dello stato di adottabilità. La Procura ricorre, non è d’accordo e la Corte d’Appello condivide le riserve su quella donna che “nel pieno possesso delle sue facoltà” aveva scelto la Congregazione abbandonando la bambina.



Ora la sentenza della Cassazione, ritiene i giudici non abbiano avuto la necessaria comprensione per le condizioni fisiche e psichiche “particolarmente compromesse” in cui si è trovata la suora disorientata dalle sue vicende.  Lei sarà sotto osservazione e dovrà dimostrare di saper colmare tutto il ritardo accumulato mentre una coppia dava amore e cure alla neonata che la religiosa non ha riconosciuto come sua.

Ce n’è da riempire pomeriggi televisivi, pagine di gossip e di rotocalchi; anch’io avrei molti commenti in punta di penna ma mi trattengo, siccome della verità non sento nemmeno l’odore, solo miasmi pruriginosi.

Il dato che riporto, questo reale, è che per la prima volta in Italia si ferma una procedura di adottabilità con i termini di riconoscimento ormai scaduti.

Non si è mai restituito il figlio abbandonato alla nascita dalla madre, ma lasciare il convento pare sia una condizione talmente compromettente dal punto di vista psicofisico che si può capire lo “stato confusionale” in cui si trovava la suora.

Su questo punto si apre una parentesi dovuta; per ogni donna è difficilissima una scelta simile, ne ho avuto testimonianza diretta; ho imparato, di fronte a volti bagnati a sospendere il giudizio, a ricordare la parola “misericordia”, che significa usare il cuore e conoscere il dolore degli sbagli che si fanno, senza eccezioni. Anche le suore sono donne, bisognose di abbracci e di scelte difficili, prede di scandali che pretendono da loro una perfezione morale impossibile, disumana.

Ma allora da dove nasce la richiesta (riportata quasi come fosse un ricatto) di lasciare il convento o tenere il figlio?

La Chiesa guarda prima al bambino, alla sua salute psicofisica: difende i deboli, i senza-parola, i piccoli che ancora non sanno o non possono parlare e scegliere dove o con chi stare, se dentro o fuori una scelta di vita consacrata. Se essere abortiti o nascere, vivere anche se malati, imperfetti, non voluti…

Un individuo per crescere sano ha bisogno di un padre, una madre, una società intera. Non può farlo, o meglio, sarà molto più difficile per lui farlo fra quattro mura, anche se antiche e bellissime circondato solo da persone dello stesso sesso, senza legami parentali privilegiati (nonni, zii, cugini) con cui convivere, senza amichetti con cui giocare, a pallone magari, al di fuori della scuola, perché comunque deve andare a scuola.

Questa osservazione la riportano tutti i pedagogisti umani, dai primi fondamenti di questa Scienza, senza tanti compromessi; a un bambino per crescere sereno servono una madre e un padre, anche se adottivi, una società intera.

Questa semplice osservazione è naturale e terribile: se per un bambino la cosa migliore è una famiglia, che sia pure adottiva, vanno a farsi benedire tutte le altre opzioni, gli ovuli selezionati, gli uteri affittati, tutte le fecondazioni forzate, le adozioni omosessuali: tutto quel giro anche economico che serve per “ottenere” un bambino e “possederlo” legalmente.

Poi l’altra, conseguente, osservazione: un bambino non si possiede, è una freccia scagliata nel cielo diceva Gibran, poeta indiano. Un figlio non è un diritto, ma un dono, non è qualcuno che si ha ma qualcuno a cui dare tutto.

Anche alla bambina di quasi tre anni si deve guardare, quanto le possa costare abbandonare la casa che le ha dato sicurezza e accudimento. Lei è stata accolta come uno splendore dai genitori affidatari, che altrettanto generosamente la restituiranno, rispettando la volontà di una Giustizia che infrange la legge, dato il caso difficile.

Ma per loro resterà sempre “una figlia”, è sicuro.

Quanto hanno saputo darle, quanto la hanno amata anche se non avuta; questo loro amore gratuito è stato il primo bene delle sua vita.