Nonostante l’avviso contrario del Parlamento federale, domenica scorsa il popolo svizzero – seppur con un’esigua maggioranza di 50,5 per cento di “sì” contro il 49,5 per cento di “no” – ha votato a favore della definizione di un limite (non del blocco) all’immigrazione; e quindi di una rinegoziazione degli accordi bilaterali per la libera circolazione delle persone vigenti tra Berna e Bruxelles.
Che un Paese con poco meno di 8 milioni di abitanti voglia rinegoziare degli accordi che non pongono limiti di principio all’afflusso sul suo territorio dei cittadini della circostante Unione Europea, che di abitanti ne ha circa 503 milioni, che cosa c’entra con le sorti dell’Europa di Bruxelles? Obiettivamente non c’entra nulla. Nel Canton Ticino, che ha poco più di 341mila abitanti, ai lavoratori stranieri residenti si aggiungono i lavoratori frontalieri, che cioè lavorano nel Cantone ma abitano in Italia, per lo più in Lombardia. Questi negli ultimi anni sono raddoppiati passando da 30 a 60mila, e costituiscono oggi circa un terzo della forza lavoro impiegata dall’economia ticinese. Gli stranieri regolarmente residenti ammontano in Svizzera al 23 per cento della popolazione complessiva (in Italia invece sono il 7,5 per cento secondo dati del 2011). Che cosa farebbe l’Unione Europea se ne avesse in proporzione altrettanti, ossia oltre 115 milioni? Ecco una domanda che, prima di stracciarsi le vesti, sarebbe doveroso farsi. Invece non se la fa nessuno.
Ormai però la realtà delle cose ha (purtroppo) sempre meno importanza. I fatti contano non in quanto tali bensì a seconda del forno in cui vengono messi a cuocere. E il forno caldo del momento è quello delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo. La crisi delle istituzioni europee, così come si sono sviluppate dall’abbandono della loro originaria ispirazione in avanti, è ormai irrefrenabile. L’abbandono dell’eredità storica, principale risorsa dell’Europa, a favore dell’esclusivo riferimento alla filosofia politica di Kant, e la pretesa di far governare il Continente da un’ élite tecnocratica democraticamente non legittimata sta portando l’Unione Europea nel baratro.
In tale prospettiva l’ordine costituito dell’Europa ufficiale, invece di rimettersi in discussione, cerca la salvezza in una campagna di discredito preventivo delle forze politiche che nel futuro Parlamento Europeo potrebbero essere maggioritarie o quantomeno avere in esso una presenza di rilievo ineludibile. Ci stanno già spiegando che saranno tutte quante “populiste” e “antieuropeiste”.
Lo spazio di chi potrebbe entrare in quel nuovo Parlamento all’insegna del motto “Europa sì, ma quale?” vien così precluso. Per scaldare il forno in cui cuoce questa campagna va bene tutto, anche l’esito del referendum svizzero di domenica scorsa.
Relativamente alla questione in gioco il caso del referendum elvetico è in effetti minuscolo. Eppure, se venisse considerato altrimenti e analizzato attentamente, potrebbe essere di utile riferimento. La Svizzera infatti, nazione plurilingue e pluriculturale stabilita da secoli, è un laboratorio politico da cui l’Unione Europea avrebbe molto da attingere, se fosse meno piena di se stessa (ovvero di un bel niente, allo stato attuale delle cose).