LUGANO – I media italiani stanno caricando ossessivamente il voto svizzero di domenica scorsa sull’«immigrazione di massa» di significati xenofobi che hanno, in realtà, un peso minimo. Non dico nullo, perché il partito di Blocher, l’Udc, che ha strappato il «sì» alla propria iniziativa per il rotto della cuffia (50,3% contro 49,7%), corteggia da anni gli umori e le paure di una parte della popolazione sui temi dell’«inforestieramento». 



Bisogna sempre ricordare – come sistematicamente la stampa europea dimentica di fare – che gli svizzeri convivono cordialmente con un 22% di popolazione straniera (dove, in Europa, c’è una simile percentuale?). Ma la convivenza con gli immigrati in realtà è di gran lunga meno problematica di quanto non lo sia nel resto del nostro continente. Anche perché – con un’eccezione, quella ticinese, di cui dirò tra poco – non c’è lavoratore straniero che metta piede in Svizzera se non su chiamata di un’impresa locale. È un bisogno, quello di manodopera (anche molto qualificata) di cui tutti, qui, sono perfettamente coscienti. 



Qual è stata allora la molla del voto di domenica? Provo a rispondere, anzitutto, per l’area numericamente più importante del Paese, quella tedesca. La difesa della sovranità nazionale minacciata da continui cedimenti negoziali (oggi sulla libera circolazione, domani sul segreto bancario) è stato certamente un fattore decisivo. Insomma, gli svizzeri sono attaccatissimi all’autonomia politica del loro Paese, e quando si accorgono che dall’esterno si danno «ordini» a Berna, insorgono. Beninteso, ad accettare supinamente tali «ordini» sono state, negli ultimi quattro o cinque anni, le stesse autorità politiche federali. Blocher, il leaedr storico dell’Udc (partito di maggioranza relativa al parlamento di Berna), non perde occasione da anni per muovere accuse di inettitudine e di goffaggine ai ministri elevetici. Non senza qualche buona ragione. Come sanno i ticinesi.



È stato infatti il massiccio apporto dei «sì» ticinesi a far pendere domenica la bilancia dalla parte dell’inziaziva Udc. Il popolo ticinese ha urlato che «il Consiglio federale è nudo», ovvero che sotto un manto di rassicuranti parole su «misure di accompagnamento» et similia, a proposito degli accordi biltaterali con l’Ue non si è mai fatto niente di serio e di concreto per rimediare ai gravi problemi causati dall’introduzione integrale della libera circolazione della manodopera. Non si tratta tanto di frontalieri (lavoratori benedetti e richiesti dai nostri stessi imprenditori), bensì del cosiddetto fenomeno dei «padroncini», ossia di piccole aziende italiane che attraversano la frontiera ogni giorno e prestano servizi a prezzi stracciati grazie all’assenza, per loro, di Iva e di imposte svizzere e/o italiane (l’occhiuto fisco di Roma non arriva fin qui…). 

Risultato: aziende locali di artigiani che chiudono, disoccupazione che sale. La più recente beffa subita dal Ticino riguarda il negoziato fiscale e l’accordo sui frontalieri con l’Italia, dove il Governo federale ha colpevolmente tergiversato e commesso sviste madornali, mostrando un disinteresse quasi cinico per i disagi del Ticino. E dopo mesi di ripetuti e inascoltati segnali lanciati dall’economia e dalla politica ticinesi a Berna, la pentola è scoppiata.

Dunque, un messaggio della Svizzera profonda a Bruxelles, e un messaggio dei ticinesi a Berna. Ma era necessario, per inviare questi messaggi, passare da una rischiosa scommessa con l’Unione europea? Chi scrive resta convinto di no. Per quanto i termini dell’articolo costituzionale votato domenica restino vaghi e ancora tutti da precisare (in una laboriosa e lunga trattativa tra i promotori e il Governo che potrebbbe durare anche tre anni), è chiaro che l’introduzione dei cosiddetti «contingenti» (tetti articolati per categorie di lavoratori e per Paesi di provenienza) confligge con la lettera dell’accordo bilaterale tra Sizzera e UE sulla libera circolazione delle persone. E se un accordo venisse disdetto, tutta la costuzione dei bilaterali verrebbe a cadere. Un rompicapo per le rispettive diplomazie. Insomma, se oggi Blocher si gode la vittoria, molti rami dell’economia svizzera tremano al pensiero di dover rimandare i nostri titubanti ministri al tavolo delle trattative sui bilaterali con Bruxelles, dove le mani della Commissione si sono ormai fatte il callo nello schiaffeggiare i nostri rappresentanti.