Due figli, uno di 2 anni e una di 8, avuti in due matrimoni diversi e dunque con due donne diverse. Michele Graziano li prende tutti e due, d’accordo con le madri, e li porta nel suo appartamento, un appartamento da cui sta traslocando. Una volta lì, l’uomo prende un coltello da cucina e taglia la gola ai due piccoli, poi avverte il fratello di quello che è successo e tenta il suicidio. Sopravvive. Le prime ricostruzioni parlano di un uomo terrorizzato dall’idea di non riuscire a pagare gli alimenti per mantenere i figli (fa il cassiere all’Esselunga), si dice anche che la seconda separazione, avvenuta da poco, lo abbia spinto alla depressione davanti al secondo fallimento a livello matrimoniale. Claudio Risè, scrittore, giornalista, docente universitario e psicoterapeuta, parlando con ilsussidiario.net, sottolinea come eventi del genere si verifichino per la solitudine a cui oggi, nella società post moderna, sono lasciate le persone “in un contesto dove il modello culturale non aiuta più la persona a sviluppare la consapevolezza dell’autentico significato di matrimonio e di paternità”. “Tragedie” dice ancora “che si compiono anche come conseguenza di queste nuove norme educative che addirittura cancellano la specificità dell’unione uomo e donna”.
Quale la sua prima impressione davanti a questo caso?
Il tragico gesto di questo padre appare come una manifestazione particolarmente evidente ed eclatante della debolezza del soggetto umano nella società post industriale e post moderna, soggetto che grida la sua disperazione proprio sul terreno della responsabilità più delicata e più grande a cui si sente di mancare, che è appunto quella verso i figli che ha generato. Di tutte le responsabilità che una persona può avere – dal pagare l’affitto o i debiti nei confronti di altri – certo quella più sconvolgente e impegnativa è quella verso i figli.
Infatti, Michele Graziano avrebbe ammesso la sua paura di non riuscire a mantenere i figli dopo le due separazioni.
Questa responsabilità, che è sempre impegnativa, viene sentita come particolarmente grave proprio dopo la separazione dal coniuge. Il fallimento del matrimonio – e in questo caso si tratta di ben due matrimoni – lascia la persona sconcertata perché il nostro modello culturale non aiuta più a sviluppare la consapevolezza dell’unione e quindi a prepararsi a questo fatto grande, quale è per l’appunto l’unione fra un uomo e un donna e la generazione dei figli.
C’è banalità, superficialità nel vivere tutto questo?
Spesso il matrimonio, l’unione tra un uomo e una donna avviene in modo automatico, in parte come soddisfazione di pulsioni e in parte anche dimostrazione verso l’esterno, cioè dimostrare agli altri di avere una donna o un uomo. Ma il tutto vissuto senza maturità, perché il modello culturale odierno non aiuta a sviluppare una personalità capace realmente di riconoscere e vivere la grandezza dell’unione tra un uomo e una donna e della creazione di una famiglia.
Quindi cosa scatta in casi come questo?
In questo quadro d’immaturità sociale e culturale, il fallimento dell’unione e il peso della responsabilità dei figli lasciano la persona del tutto sconcertata e inerme, portando fino a queste reazioni, infantili da una parte e paurosamente distruttive dall’altra, come in questo caso specifico.
Quando parla di modello culturale attuale, intende un modello che non dà le ragioni, non approfondisce il valore dell’unione e della procreazione?
Assolutamente. Quando parlo di modello culturale attuale intendo proprio l’insieme di informazioni e di comunicazioni che i media forniscono in queste occasioni. Poi c’è l’aggravante dell’educazione moderna, che ha introdotte queste tragiche nuove norme che addirittura cancellano la specificità dell’unione uomo -donna. Le persone si trovano in una situazione di assoluta confusione, sia di informazione che di non formazione, proprio riguardo a questi fondamentali eventi della vita e della relazione.
Pensa che nel caso in questione abbia giocato anche una concezione possessiva dei figli, nel senso di dire “io li ho creati e io li distruggo”?
Un prolungamento di sé – “il possesso” che suggerisce lei – è una formazione psichica molto confusa, molto arcaica, dove non c’è differenziazione tra soggetto e oggetto di amore separato da te. In questo caso c’è senz’altro anche questa componente di possesso, ma non è l’unica.
In conclusione, casi come questi provano il disfacimento della famiglia, dei valori fondanti che la regolano?
Dimostrano di fronte a questi fatti costitutivi della vita che sono l’unione, il matrimonio e la procreazione, l’individuo si trova assolutamente solo, sempre più abbandonato e confuso. Soprattutto oggi, grazie alle ultime, sciagurate disposizioni sull’educazione.