Roberto Saviano ha confessato a El País che non riscriverebbe più Gomorra. Il prezzo della verità, alla quale si dedicò in modo esclusivo, ambizioso e quasi maniacale, sacrificando ad essa tutta la propria vita, è dunque troppo alto?
Condannato a vivere sotto scorta, a dormire in luoghi sempre diversi e sconosciuti, a far uso di psicofarmaci per dormire: ecco l’autoritratto del Saviano di oggi. Vittima, come Salman Rushdie, del proprio coraggio.
Si poteva fare, dice oggi, in modo più prudente, cercando di salvaguardare sé stesso e i propri affetti, senza rinunciare alla verità ma senza la foga presuntuosa di dieci anni fa.
Non è facilissimo capire le sue parole, semplici e lineari solo in apparenza. Io non conosco il tipo di vita che fa, perciò non lo giudico.
Tutti noi paghiamo un prezzo per quello che diciamo e facciamo. Gli antichi esortavano i propri contemporanei a non considerare felice o infelice la vita di un uomo prima che questa si fosse conclusa. E avevano ragione: solo uno sciocco può pensare che il conto – in un momento o nell’altro, in una forma o nell’altra – non ci sarà presentato.
Forse, la vita che Saviano ha condotto in questi anni l’ha preservato da un matrimonio fallito, da un figlio malato, o da una qualsiasi delle infinite croci che toccano a chiunque non abbia deciso di vivere un’esistenza completamente finta (e di scrivere libri altrettanto finti). Nessuno può sapere, insomma, come sarebbe stato il destino di questo suo avatar.
Se però io conoscessi Roberto Saviano, gli domanderei se considera la sua vita soltanto disagevole o anche vuota. Perché la sola cosa veramente insopportabile è una vita vuota. Il vuoto non si può accettare (se non in una prospettiva totalmente mistica).
Saviano è uno scrittore di grande talento e capacità. Ho ammirato molte pagine di Gomorra, e i suoi articoli su Repubblica mi sono sempre parsi bellissimi, anche quando non ero d’accordo con le tesi che sostenevano. E dubito che possa pensare che la vita che conduce – certamente dura – sia in grado di inaridire la sua vena. Se un uomo è fedele a sé stesso, non c’è scorta, non c’è psicofarmaco, non c’è Fabio Fazio che lo possa fermare. Scrivere in prigione o al Plaza è esattamente lo stesso. Ciò che fa smarrire la vena a uno scrittore è l’autoinganno.
Ma, forse, Saviano avverte l’invadenza del vuoto: in questo caso la sua angoscia sarebbe più comprensibile. Potrebbe pensare: ho servito la verità, ma fino a che punto? Ho servito la verità, ma potrei anche aver contribuito a nascondere o cancellare altre verità.
Sono ipotesi, naturalmente: pensieri che verrebbero sicuramente in testa a un tipo come me. Perché il fatto è che noi siamo sempre inadeguati alla verità: la possiamo raggiungere, la possiamo proclamare, ma non senza parzialità, non senza un certo numero di errori e approssimazioni. Questo significa pagare un prezzo: niente di troppo eroico, dunque. E niente di filosofico.
Penso che Saviano, per esempio, abbia dato ai lettori un ritratto di Napoli in parte ingiusto. Napoli non è un inferno: forse è un purgatorio, dove però è possibile incontrare l’uomo (nel senso più semplice e concreto della parola) molto più che a Roma o a Milano, dove gli schermi si moltiplicano. Nessun ritratto di Napoli dovrebbe omettere questo dato.
Quando dice che avrebbe potuto raggiungere la verità con maggior prudenza, Saviano potrebbe intendere proprio questo. Raccontare l’uomo, lo diceva già Hemingway, è la cosa più difficile che ci sia, e forse è questo il motivo per cui Dio accetta che esistano gli scrittori: perché poche attività come questa ci mettono di fronte alla nostra inadeguatezza circa la verità delle cose.
Auguro di tutto cuore a Roberto Saviano che possa accettare questa croce, che non consideri gettato via il tempo che gli tocca vivere in questo drammatico presente. Se la notorietà non può guarirlo dalla solitudine, forse la sua situazione può aiutarlo a ricordare che la letteratura è un’enorme famiglia, e che noi scrittori − anche quando litighiamo e ci fraintendiamo e ci detestiamo di cuore vicendevolmente − abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri per capire meglio chi siamo.