Anch’io voglio bene al papa“. E così, d’impatto e quasi per contraccolpo riparatore, il titolo del libro struggente e potente di Don Primo Mazzolari è venuto a colmare il senso di tristezza suscitato dalla “Lettera a Papa Francesco“, pubblicata su Il Foglio e sottoscritta da laici e cattolici, fra cui alcune autorevoli personalità del cattolicesimo italiano.



C’è un modo di rivolgersi alle autorità ecclesiastiche e soprattutto al papa, che può costituire motivo di riflessione, comunione e persino di commozione e letizia. Per contro, c’è un modo che per tono o per contenuto è tale da creare scandalo fra i battezzati e sofferenza nella Chiesa, sino a sortire l’effetto contrario a quello perseguito.



Nel primo rientra senz’altro il volumetto citato, scritto nel ’42 in occasione dell’anno giubilare di Pio XII e circolato clandestinamente a causa della censura fascista, nonostante l’autorizzazione ecclesiastica (è stato infine riedito nel 2009 da 30 Giorni). Nell’Introduzione don Primo giustificava l’iniziativa, spiegando di voler bene al papa alla propria maniera (“Ma della maniera di voler bene chi ne può far colpa? Si ama col cuore che si ha, se uno ce l’ha“). E così, pensando al papa, chiariva che “Una devozione affettuosa e alla buona, che non canta se non ne ha voglia, e che in luogo dei soliti omaggi gode di dirgli, alla sua maniera, che gli vuol bene come si vuol bene a uno di casa nostra, non gli può dispiacere“. Di qui la conclusione intensa e drammatica, che ricorda il modo con cui Peguy immaginava l’ammirazione compiaciuta di Dio verso la libertà virile e appassionata di San Luigi re dei francesi: “Anche il papa ha bisogno di figliuoli che gli vogliano bene alla buona, l’unica maniera per voler bene veramente, che gli obbediscano in piedi e che in piedi gli diano mano a portare la grossa croce che ha sul cuore e sulle spalle“.



Nel secondo modo, per contro, rientra la lettera citata. Essa è rivolta a “Padre Francesco“, da parte di “laici e cattolici” convinti che “la chiesa cattolica non debba subire il ricatto delle avanguardie fanatizzate del mondo secolare sulla questione dell’infanzia“. E così, la denuncia dei rischi in cui incorre la tutela dei valori non negoziabili della vita, dell’infanzia e dell’educazione cristiana, messi a repentaglio da “leggi neogiacobine” e da “pronunciamenti solenni“, è posta all’origine della ferma decisione di “reagire“; ciò anche in vista della possibilità di avviare “un dialogo fecondo con il mondo laico non fanatizzato e con le altre religioni“. Di qui il pressante appello rivolto al papa: “Chiediamo alla vostra autorità, con umiltà e pieno convincimento di coscienza, di aiutarci a promuovere una controffensiva di preghiera, di azione pastorale, di idee“.

A essere in discussione, ovviamente, non è tanto il contenuto in sé della denuncia. Esso lamenta gli effetti nefasti provocati dalle decisioni delle Corti e dei Parlamenti dell’occidente globalizzato sui diritti della vita, dell’infanzia e dell’educazione. A sconcertare, piuttosto, è l’oggetto della richiesta in relazione al suo destinatario. Il papa è trattato alla stregua di una qualsiasi autorità spirituale (“Padre Francesco“) o – peggio ancora – solamente temporale (“vostra autorità“). Una volta ignorato il santo ministero di cui la sua persona è portatrice, il Vicario di Cristo è incaricato di farsi promotore di una “controffensiva” di tipo plurimo: “di preghiera e di azione pastorale“, con riferimento ai cattolici; “di idee“, con riferimento ai laici.

A ben vedere, tuttavia, una tale controffensiva sarebbe tale da provocare nei suoi effetti un’inversione di rotta nel magistero di papa Francesco. Sin dall’inizio del suo pontificato, questi più volte e in vario modo ha chiesto alla Chiesa di portarsi verso le periferie esistenziali; di trasformarsi in una specie di “ospedale da campo dopo una battaglia“, al fine di curare le ferite di ciascuno. E ciò non già per ignorare le responsabilità della Chiesa in ordine alla tutela dei diritti richiamati, bensì, paradossalmente, proprio per consentire una relativa piena tutela avendo riguardo alla totalità delle esigenze ed evidenze originarie dell’uomo.

Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione. Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus” (A. Spadaro, La Chiesa, l’uomo e le sue ferite: l’intervista a papa Francesco, Avvenire19 settembre 2013). In definitiva – verrebbe da dire – più attrattiva e meno militanza.

Rispetto a tale orientamento pontificio, tuttavia, la richiesta di una “controffensiva di preghiera, di azione pastorale, di idee” ha un duplice deflagrante effetto, indipendentemente dalla buona fede di tanti sottoscrittori. Essa non si risolve solo nella contestazione delle ragioni del (presunto) silenzio del pontefice in ordine alle richiamate questioni controverse; più ancora, apre la via a una critica di “laici e cattolici” sull’opportunità (se non proprio sull’ortodossia) del magistero di Francesco. Una critica plateale, globalizzata, pubblicata sul web, in più lingue e per giunta in occasione del primo anniversario delle dimissioni di Benedetto XVI; quasi a marcare una (irreale) differenza fra i due (più battagliero l’emerito e più relativista il regnante); quasi a dimenticare che quelle dimissioni avvennero, come ebbe a sottolineare l’anziano pontefice, per “il bene della Chiesa”.

Ma chi è il custode del “bene della Chiesa”, il papa o i “laici e cattolici“? La domanda non è provocatoria. Intende piuttosto evidenziare l’equivocità cui si presta la Lettera del Foglio. Essa, anzi, induce a riflettere sul senso dell’obbedienza nella Chiesa e sul ruolo dei laici.

Sul primo punto, mi è caro ricordare l’obbedienza che don Giussani manifestava verso le gerarchie ecclesiastiche, compromettendosi con le relative scelte storiche anche se non condivise. Emblematico fu il caso del referendum sul divorzio del 1975, alla cui iniziativa egli aderì nonostante alcune riserve (dimostratesi poi fondate) e solo per obbedienza verso l’apposita richiesta della Conferenza Episcopale Italiana: “[CL fu] l’unica organizzazione cattolica italiana che diede sistematico appoggio alla campagna per il «sì» al referendum abrogativo; un appoggio nel quale – si noti – ci impegnammo per obbedienza all’autorità ecclesiastica. Per parte sua, infatti, CL non sarebbe stata pienamente d’accordo sull’utilità di un’iniziativa del genere nelle circostanze date” (L. Giussani, Il movimento di Comunione e liberazione, Milano, 1987, 130). 

Per non dire della devozione che egli mostrava verso il pontefice, anche quando non si riconosceva in talune sue insistenze storiche. A proposito di Giovanni Paolo II una volta ebbe a scrivere: “Il Papa in ginocchio non mi suggerisce un’immagine di debolezza. Mi ricorda piuttosto lo Spartaco antico, che si erge in tutta la statura della sua umanità in un gesto supremo di libertà, come esempio offerto per la sempre desiderata felicità di tutti e di ciascuno” (L. Giussani, La Repubblica, 15 marzo 2000).

Sul secondo punto, riguardante il ruolo dei laici, vien da chiedersi cosa residuerebbe agli stessi se il giudizio e la “controffensiva” verso le contraddizioni della storia fossero direttamente appaltati dal pontefice: quali spazi di rischio e d’intrapresa (culturali, politici, economici, ecc.) resterebbero a disposizione dei singoli? In cosa potrebbe consistere il contributo creativo di ciascuno? 

Il pensiero corre subito ai lavori dell’Assemblea costituente e al problema che si pose con riguardo alle gerarchie vaticane, propense all’instaurazione di un modello di Costituzione tale da rendere lo Stato il luogo dell’elaborazione dei valori etici e religiosi. Le prese di distanza che Alcide De Gasperi rivendicò persino in tema di libertà religiosa verso quelle gerarchie, furono molteplici, sofferte e riservate (G. Sale, Il Vaticano e la Costituzione, Milano, 2008, spec. 151). Il rilievo è tanto più pregnante, se paragonato alla sottoscrizione della Lettera del Foglio addirittura di un senatore della Repubblica italiana: come può un politico di uno Stato laico chiedere a un pontefice il supporto di una “controffensiva di idee” su tematiche di principale propria pertinenza? Ha già esaurito lo spettro delle potestà riconosciutegli dalla Costituzione per agire al riguardo? E, soprattutto, perché invocare il ritorno alla teologizzazione della politica, perché chiedere alla Chiesa di sponsorizzare le richieste della politica, ora che quest’ultima è finalmente autonoma, ora che l’epoca del cesaropapismo è definitivamente tramontata?

Tornando all’interrogativo su chi decida il “bene della Chiesa”, nella “Vita di San Francesco“, scritta dal san Bonaventura da Bagnoregio nel 1260 è raccontato un episodio che può aiutare a rispondere. “Spesso, pensando allo scandalo che veniva dato ai piccoli, [Francesco] provava una tristezza immensa, al punto da ritenere che ne sarebbe morto di dolore, se la bontà divina non l’avesse sorretto con il suo conforto. Una volta, turbato per i cattivi esempi, con grande ansietà di spirito, pregava per i suoi figli il Padre misericordioso; ma si ebbe dal Signore questa risposta: ‘Perché ti turbi, tu, povero omuncolo? Forse che io ti ho costituito pastore della mia Religione, senza farti sapere che il responsabile principale sono io? Ho scelto te, uomo semplice, proprio per questo: perché le opere che io compirò siano attribuite non a capacità umane, ma alla grazia celeste. Io ho chiamato, io conserverò e io pascerò e, al posto di quelli che si perdono, altri ne farò crescere. E se non ne nasceranno, li farò nascere io; e per quanto gravi possono essere le procelle da cui questa Religione poverella sarà sbattuta, essa, col mio sostegno sarà sempre salva“.

Forse è questo il motivo per cui ai semplici cristiani è sufficiente ripetere le povere parole di don Primo Mazzolari: “Anch’io voglio bene al papa“.

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