Francesco naviga nel corridoio centrale della Basilica Vaticana, mentre un centinaio di mozzette e berrette rosse incastrano i propri sguardi sul suo volto assorto, compenetrato, intenso. Poi superata l’ultima fila, illuminata di bianco e porpora, si lancia verso l’unico altro uomo candido dalla testa ai piedi. Spalanca le braccia prima di raggiungerlo e lo accoglie nel suo spazio diventato improvvisamente immenso.
Sarà che Ratzinger è invecchiato, che ormai siamo abituati alla stazza e alla vitalità dell’argentino, che l’abbraccio era inaspettato alla vigilia, ma quell’istante ha reso inutile lo splendore della Basilica e il fascino del rito di creazione cardinalizio. Inutile perché niente può gareggiare con la bellezza di quei due uomini che si riconoscono reciprocamente padri, pur essendo indubbiamente figli, l’uno dell’altro. A destra dell’inquadratura, consegnata dalla regia del Centro Televisivo Vaticano, quell’anziano teologo che ha fatto dell’umiltà il segno della sua grandezza, la papalina in mano, come i contadini e i professori quando mostrano rispetto, a sinistra il pontefice appoggiato alla sua croce, il Papa a cui piace rompere gli schermi, persino provocare.
Si stringono: un’unità visibile, impareggiabile, spiazzante che non ammette obiezioni e non annulla il senso della gerarchia. Da una parte il successore di Pietro, dall’altra la docilità di chi gli ha promesso obbedienza prima ancora di conoscerne il volto e il nome. Basterebbe questa immagine, straordinaria, per consegnare il primo concistoro targato Bergoglio alla storia. Ma c’è anche la parola che Francesco sussurra incollando gli occhi sul viso di Benedetto. Grazie. Si saprà dopo che è stato proprio il pontefice argentino ad insistere per quella presenza inedita e preziosa dentro la magnificenza espressa dal Concistoro. Ha voluto lui, Francesco, Joseph Ratzinger dentro quella promessa di Chiesa nuova, alle spalle dei nuovi cardinali, isolato dalla massa di porpore, ma allineato. Il Papa emerito, a lato dei Patriarchi, in un posto che una regia sapiente ha individuato senza cedere ad isterismi.
È toccato poi al Segretario di Stato, Parolin, accompagnare con le parole quella mutazione genetica del cerimoniale, quando nel suo saluto a Francesco, ha indirizzato “uguale affetto e venerazione” al Papa emerito, “Sua Santità Benedetto XVI”, esprimendo una letizia comune ai tanti presenti. L’applauso è scattato lì. Mentre Ratzinger piegava il capo, tentando invano di sottrarsi, di scivolare nell’insignificanza, pur di non ferire l’autorità del successore.
Poi ha avuto un sussulto e ha avvicinato la mano alle labbra per lanciarla all’indirizzo dell’altare. Se non fosse che non ho mai visto fare niente del genere al pontefice tedesco giurerei che si trattasse di un bacio. Di quelli che i nonni, inteneriti dall’età, mandano ai nipotini, per avvolgerli d’amore contro i pericoli del mondo.
Non voglio cedere ad una retorica stucchevole, né perdermi in narrazioni estatiche, ma non posso nascondere la commozione per quel gesto, l’impeto suscitato da quell’uomo violato nel suo isolamento eppure disponibile a certificare sempre la sua fedeltà, a rinnovare il suo impegno a restare nel recinto di Pietro, a mostrare sempre e comunque una comunione autentica e totale al suo successore.
Si possono fare analisi, scomodare profezie, cercare appigli, inseguire deliranti disegni, ma rimane il fatto inconfutabile, inalienabile e incorruttibile di due anime gigantesche chiamate a vivere in maniera e tempi diversi lo stesso destino. Sullo sfondo una Chiesa che ha bisogno di uomini così. Uomini, come ha detto poi Francesco, di preghiera, compassione, tensione alla pace. Uomini che camminino sulla strada di Gesù, andando incontro alla Croce e alla Resurrezione. Uomini di fede che annuncino il Vangelo in ogni occasione “opportuna e inopportuna”, per dare testimonianza della Verità. Imitatori di Cristo sempre. Come Joseph e Jorge, Benedetto e Francesco, che non calcolano la convenienza delle proprie azioni, ma solo la loro conformità alla coscienza forgiata da Dio.