Negli anni 90 del secolo scorso, Giulio Tremonti scrisse un libro, geniale nella forma e nella sostanza, sullo “Stato criminogeno”. Esiste lo Stato che funziona; lo Stato-Provvidenza; lo Stato minimo, come lo vorrebbero i liberali; e c’è poi lo Stato criminogeno, ossia uno Stato che si afferma come Leviatano, “deus mortalis”, appena sotto Dio, perché produce una tale mole di carte, legislazione e procedure da soffocare e rendere ogni azione umana ai limiti della devianza, quando non illegali. È infatti impossibile essere nella norma quando la norma regola anche ciò che appunto è “normale”.



Rendere “normato” il “normale”. Ecco, questo è l’aspetto più eclatante dello Stato criminogeno. Ma non è l’unico. Esiste poi il capitolo opere pubbliche afferente allo Stato-volano dello sviluppo di un’area urbana. Opere pubbliche che durano decenni, che costano una cifra alla partenza e cinquanta volte di più alla fine; opere pubbliche che devastano scenari ambientali oppure creano disagi e danni enormi ai cittadini. Opere che, anziché essere il segno di un’edificazione a favore della polis e del bene comune, diventano il segno tangibile di una devianza dal progetto originario ordinatore dello Stato. Se togliamo questa missione storica allo Stato, tanto vale stare, seguendo Rothbard e il pensiero libertario, senza Leviatano democratico.



Riflessioni apparentemente astratte, queste, ma che in realtà forniscono le ragioni concrete del gesto disperato del commerciante di Monza che si è dato fuoco per protestare contro la costituzione di barriere anti-rumore davanti al suo ristorante. Non era un’ossessione esclusiva di questo signore, essendo condivisa anche da altri commercianti della zona. Un problema che rilancia la vicenda del rapporto tra uno Stato che costruisce sui territori e i cittadini che gli stessi territori abitano, pagandoci le tasse.

Se vuoi fermare i lavori della Tav sai come fare: arruoli bande di anarco-insurrezionalisti, smonti tutto, infiammi la campagna elettorale; ma se hai delle barriere anti-rumore davanti al locale, cosa che ti fan perdere clienti e soldi, dopo aver investito tutto in quell’impresa, che fai? Niente, o abbozzi o, scegliendo la strada estrema, ti dai fuoco. Una strada sbagliata, ma che non può semplicemente far passare il commerciante che l’ha praticata come uno spostato ossessionato dai lavori delle barriere anti-rumore. C’è, a monte, una bella gatta da pelare: a che serve lo Stato? A cosa servono le amministrazioni pubbliche, gli enti Locali? A succhiare soldi dalle tasche dei cittadini, e basta, danneggiandoli, per giunta, o anche a creare una rete di amicizia civica, come ha sostenuto anche di recente il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano? 



Ecco la domanda cruciale. Se le attività produttive dei cittadini e, con esse, la vita concreta degli stessi, non sono mai un mio problema, ma esclusivamente un bancomat da espugnare ogniqualvolta esigenze improrogabili di bilancio si affaccino all’orizzonte, a che serve la politica?

A cosa serve lo Stato? A cosa servono le amministrazioni locali? Nelle fiamme che hanno avvolto il commerciante di Monza, c’era dentro anche tutta questa potenza di fuoco della mente civica e civile, che anche in Lombardia, terra che ha dato i natali a Manzoni, cattolico liberale attento alla terra e alla morale, e – insieme – al laico Cattaneo, anch’egli fautore dell’amicizia civica sui territori, a quanto pare, sta subendo attacchi di non piccolo momento.

Non si tratta tanto di levare alti lai al cielo o riedificare il moralismo d’accatto anni 90, quanto di riflettere sulla portata potenzialmente criminogena di ogni potere pubblico non in grado di recuperare e restaurare, alla bisogna, le condizioni elementari della convivenza e dell’ascolto attivo delle ragioni degli attori operanti sui territori. Si tratta cioè di uscire fuori dalla logica diabolica dell’indignazione, nuova edizione postmoderna del modello Tangentopoli, per riabbracciare il principio di realtà.