Mentre Francesco Schettino si reca sull’isola del Giglio, torna alla memoria la figura di un altro comandante della marina mercantile italiana: Simone Gulì. Egli fu l’eroico protagonista del naufragio della nave Principessa Mafalda, avvenuto a largo delle coste brasiliane nel 1927. La Principessa Mafalda era l’orgoglio della cantieristica italiana, un po’ come la Concordia per i nostri tempi. In vent’anni di servizio aveva trasportato migliaia di emigranti italiani diretti verso il sogno americano, ma anche ospitato personaggi illustri. In una foto d’epoca si vede il comandante Gulì, siciliano, che posa insieme al conterraneo Pirandello. Il lusso dei suoi saloni liberty di prima classe fa impallidire quello pacchiano delle moderne cattedrali da crociera. L’ultimo viaggio della Mafalda finì in disastro per un vasto squarcio a poppa causato dalla rottura dell’asse dell’elica. Apparentemente non un errore umano, come quello della Concordia. In realtà ci fu incuria anche allora, ad esempio nella manutenzione della nave e nella gestione delle scialuppe di salvataggio, se è vero che il direttore di macchina, durante il naufragio, si suicidò.
La nave affondò in tre ore. Morirono 314 persone. Secondo le cronache inglesi dell’epoca molti furono divorati dagli squali, altri nell’assalto disperato e confuso alle scialuppe. Ma il regime fascista cercò di mitigare l’impatto negativo della tragedia sul prestigio italiano, sottolineando soprattutto l’eroismo del capitano, che rifiutò di abbandonare la nave e di mettersi in salvo. Nelle illustrazioni d’epoca (ad esempio “L’illustrazione del popolo” 1927) si vede il comandante Gulì ritto sulla tolda di comando mentre la nave affonda e i suoi marinai lo salutano con onore dalle scialuppe in mare. I flutti lo ricoprono e il capitano fa suonare la “Marcia reale” dall’orchestra di bordo. Il paragone con la cronaca d’oggi è impietoso. Ma il destino a volte gioca con le coincidenze in modo beffardo. Come la Concordia, anche la Mafalda aveva una nave gemella, intitolata all’altra figlia della Regina Elena, Jolanda di Savoia. La Jolanda affondò pochi minuti dopo il varo dai cantieri di Riva Trigoso. A causa di gravi errori di progettazione la nave si piegò sul lato sinistro, rimanendo sommersa a pelo d’acqua. Le foto d’epoca documentano l’incidente ed è impressionante la somiglianza con la Concordia prima del raddrizzamento. Una ventina d’anni dopo, le vere Jolanda e Mafalda morirono prematuramente, l’una di malattia, l’altra in un campo di concentramento nazista.
Ci vorrebbe un altro Borges, ci vorrebbe una nuova “Storia universale dell’infamia” per raccontare la sequenza fantastica ma eppur reale di tanti destini tenebrosi. Riprendendo in mano l’edizione di Adelphi di questa affascinante opera narrativa del grande scrittore argentino, leggo sul risvolto di copertina che egli intende scrivere con lo stesso scrupolo delle esistenze degli uomini, siano stati divini, mediocri o criminali. Vite intere ridotte a due o tre scene, come quella di Lazarus Morell, che apre la raccolta, rivenditore di schiavi negri nelle paludi originate dalla “acque mulatte” del Mississipi . Ma il punto è: si può definire una vita con tre pennellate? Si può ridurre un uomo ad un suo gesto, fosse anche abbietto, infame? O spettacolarmente eroico?
Sempre Borges, in metafora, avverte che leggere è una attività successiva a quella di scrivere: più intellettuale. Non si pensi perciò che le nostre vite o quelle degli altri, una volta scritte da un giornalista, da un giudice, da un calunniatore invidioso o da un incensatore di regime, siamo scritte per sempre. Siano definite. Occorre poi sempre leggerle. Ed è quello che, speriamo, faccia il buon Dio, alla fine. Anzi abbia già cominciato a fare, a nostra insaputa, portandosi un po’ avanti nel lavoro.