Tra i tanti santi e beati che vengono celebrati il 3 febbraio, un posto particolare spetta sicuramente a Santa Vereburga, o Wereburga, discendente di una famiglia che già poteva annoverare luminosi esempi in tal senso al suo interno. Santa Vereburga, infatti, era figlia di Santa Ermenilda, oltre ad essere nipote di Santa Ercongota. Anche la nonna materna, Sexburga, è venerata come santa, come del resto le sorelle Vitburga, Etelburga, Eteldreda e la sorellastra Setrida. Va peraltro ricordato che la famiglia ebbe un ruolo chiave nello sviluppo della abbazia di Ely, dove molte delle sante citate ricoprirono la funzione di badessa. Carica che fu poi ricoperta anche da Santa Vereburga, a conferma di una vocazione indistruttibile.
La sua nascita ebbe luogo nel 650 in una famiglia di stirpe reale. Il padre era infatti il re Wulfhere di Mercia e quando questi morì, Santa Vereburga decise di rinunciare alla fastosa e comoda vita di corte, optando per il ritiro spirituale ad Ely, l’abbazia che già tanta parte aveva avuto nella vicenda familiare. La corona fu assunta da Etelredo, il fratello del padre, il quale chiese alla nipote di tornare, in modo da poterle affidare la guida di un sistema di case delegate al riparo delle religiose che si trovavano nella parte centrale dell’Inghilterra. Lo scopo che gli fu affidato, era quello di introdurre una disciplina più rigida di quella osservata sino a quel momento.
I monasteri interessati erano Weedon, sito nel Nothamptonshire, che aveva già ricoperto la funzione di abitazione reale, Hanbury, nello Staffordshire e Trentham, località del Lincolnshire. Luoghi che videro Vereburga dispiegare il suo operato guadagnandosi la fama di santità che non la avrebbe più abbandonata. La sua grande popolarità deriva in particolare da una leggenda, non si sa quanto romanzata a posteriori e in base alla quale la santa, una donna di straordinaria bellezza, avrebbe respinto le avances di numerosi ammiratori per non dover venire meno alla sua decisione di consacrarsi al Signore. Una decisione di cui avrebbe fatto le spese in particolare Werbod, il quale dopo aver chiesto Vereburga in sposa, non sarebbe riuscito ad ottenerne il libero consenso, condizione posta dal padre per aderire alla proposta. A indirizzare verso il rifiuto la ragazza, la madre Ermenilda e i suoi fratelli, sarebbe stato il fatto che lo stesso Werbod fosse pagano. La risposta negativa ottenuta avrebbe però spinto il pretendente a denunciare al re le visite fatte dai principi a San Chad, famoso vescovo di Lichfield, mascherate dagli stessi come spedizioni di caccia. Evidentemente contrario ai rapporti con il santo, il re avrebbe quindi fatto uccidere gli stessi dopo la denuncia resagli da Werbod. In seguito, però, roso dal rimorso, il sovrano avrebbe del tutto mutato il suo atteggiamento, arrivando a rapporti più distesi con Santa Ermenilda e San Chad, circostanza di cui avrebbe approfittato Vereburga per chiedere ed ottenere il permesso di entrare nell’abbazia di Ely.
Anche il fatto che Santa Verbeurga venga rappresentata con un’oca come emblema, può essere facilmente spiegato da una leggenda in base alla quale dopo aver fatto catturare un gruppo degli stessi animali che avevano devastato i raccolti di Weedon, la santa avrebbe poi proceduto a riportarne in vita una che era stata uccisa e cucinata da un servo. Dopo la sua morte, le sue reliquie vennero traslate a Chester, un evento da interpretare come la risposta alla possibilità di una profanazione nel corso delle invasioni da parte dei danesi. Il sacrario di Chester, proprio per la presenza dei suoi resti terreni, divenne quindi in seguito meta incessante di pellegrinaggio per poi essere distrutto nel corso dei turbolenti avvenimenti che caratterizzarono il regno di Edoardo VIII d’Inghilterra, quando la Riforma Protestante portò alla nascita della Chiesa Anglicana. Un atto dovuto proprio alla grande popolarità della santa e al continuo pellegrinaggio di fedeli. Nel 1095, una nuova traslazione portò le reliquie all’interno della cattedrale di Chester, di cui è attualmente protettrice, in pratica nello stesso periodo in cui la sua vita fu oggetto di un’opera di Goscelino, che richiama espressamente la leggenda dell’oca riportata in vita. Va però messo in rilievo come lo stesso autore avesse già usato lo stesso aneddoto in una precedente opera che era invece stata dedicata alla vita di Santa Amalberga.