Eugenio Corti è stato uno dei più importanti romanzieri del ‘900 italiano. La sua scomparsa segna la perdita di una grande personalità del mondo della cultura del nostro paese, per chi l’ha conosciuto di una figura di straordinaria umanità. Nelle sue opere, il dramma delle guerre e degli anni bui, ma soprattutto la testimonianza dell’Italia migliore. Vale a dire di quel popolo che con cuore, intelligenza, fede, ha saputo far risorgere città, paesi, campagne, dalla miseria e dal dolore. La sua testimonianza, oltre che per l’alto valore artistico, è preziosissima, e più che mai attuale, perché con il suo impegno ha documentato che la vita umana ha una dignità inesorabile, che poggia sul legame con un destino buono per il quale vale la pena spendere la vita, costruendo. Amici della Brianza, a lui vicini, mi han ricordato una pagina del suo romanzo maggiore, Il cavallo rosso, che pur parlando del passato illustra il nostro presente. Si tratta di un dialogo fra il tenente Manno e i suoi soldati subito dopo lo sbandamento dell’esercito italiano l’8 settembre 1943. Per niente scoraggiato dalla liquefazione del grosso delle forze militari, Manno rimane inquadrato e si dà a istruire gli allievi ufficiali di complemento, i quali si rivolgono così al loro superiore:“Ma alla fine di questo corso” gli obiettava con amarezza qualche allievo “noi non sappiamo neppure se riceveremo la nomina a sottotenente o no. (…) Signor tenente: noi a volte ci chiediamo se il nostro studiare non sia semplicemente inutile.”Manno risponde loro: “No. Non fosse perché, rifiutando di studiare, favorireste per quanto vi riguarda questo tremendo caos in cui stiamo sempre più sprofondando. Ci sono dei momenti, a volte periodi di pochi mesi, in cui si gioca il futuro di un popolo per molto tempo. E noi ci troviamo in uno di tali momenti, come non ve ne rendete conto?” Una lezione di dignità, e di speranza, che credo abbia molto da dire a noi e ai giorni che stiamo vivendo. Nel passo citato, il riferimento è allo studio. Per noi, potrebbe essere il lavoro, ben fatto. In risposta ai più che tirano solo allo sfascio. E come documentazione di un’umanità e di una coscienza che rifiuta il nulla. Nel mondo del gusto è la posizione di uomini come Bruno Giacosa, produttore piemontese che negli anni in cui tutti inseguivano facili guadagni, e, va detto, arricchivano, senza merito, svendendo quella che era la storia e la tradizione di Barolo e Barbaresco, è andato avanti per la sua strada. Pagando sulla sua pelle le sue scelte. Ma tenendo alta la bandiera della sua terra. I risultati, però, oggi gli danno ragione. Conferma è venuta l’altro giorno, da un suo Barolo 1995. Uno dei vini migliori assaggiati in questi anni. Un’emozione. Giacosa è stato celebrato in ogni modo, e la lista dei riconoscimenti da lui ricevuti è infinita. Eppure, per il carattere schivo, caratteristico di chi è figlio della terra di cui lui è alfiere senza eguali, non ha mai fatto parte di quegli uomini del vino che fanno collezione di copertine sui giornali o servizi televisivi. Quasi a disagio, quando tirato a forza sotto i riflettori. Alle luci della ribalta ha sempre preferito le uve, le vigne, la cantina, l’assaggio. È nato nel 1929. È l’anno in cui è morto suo nonno Carlo, sin da fine ottocento produttore, e di successo, viste le medaglie d’oro ricevute a Genova nel 1901, a Torino nel 1902, a Reims nel 1903 e a Bruxelles nel 1910, ed in cui è subentrato nell’attività suo papà Mario. Ma è anche l’anno della grande crisi. Motivo per cui suo padre, deciderà di non imbottigliare più e di dedicarsi alla vendita e all’acquisto delle uve. È stata la sua scuola. Da lì, il suo percorso, fatto sempre e solo nel segno del rispetto dei consumatori. Mai vini frutto, vini cipria, vini bibita, ovvero mai quei prodotti scorciatoia che molti riterrebbero la strada per battere la crisi. Per lui solo la grande qualità. Fatta di sacrifici. E d’eccellenza, capace di attraversare gli anni. Scelte con cui il futuro non fa paura. Anzi, con cui diventa il tempo atteso della raccolta. «Voglio fare una raccomandazione a tutti i miei colleghi più giovani: tenete da parte delle bottiglie, soprattutto quelle delle annate più buone, perché vedrete che vi saranno utili e che faranno parlare di voi anche dopo decenni. 



Perché l’importanza di una zona enologica si dimostra quando si possonostappare delle bottiglie di 20, 30 o 40 anni e scoprire che sono ancora piùbuone di quando sono state messe in commercio, come hanno ben dimostrato i francesi». Il brindisi per Eugenio Corti, che ora ha raggiunto in cielo il suo amico, Don Carlo Gnocchi, con cui aveva condiviso la spedizione in Russia, e che aveva celebrato le sue nozze, non può che essere con quel Barolo Falletto di Serralunga d’Alba 1995, dai profumi di somma finezza di tartufo, tabacco, viola appassita, e dal sorso caldo e vivo come un abbraccio pieno di affetto, che con la sua personalità affascinante e piena di mistero, è stato meraviglioso sorso d’eterno.

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