Giri in città e ti vengono all’occhio sulle vetrine di alcuni locali e ristoranti nuovi adesivi, nuovi divieti a colori vivaci; mentre sbiadiscono e drasticamente diminuiscono i divieti di accesso agli animali, compaiono avvisi nuovi (che magari si guardano due volte per sicurezza, per essere sicuri di aver capito bene) per adesso ancora rari e un po’ camuffati. Sono per esempio i soliti segnali che ci sono all’uscita delle scuole, con i due bambini che si tengono per mano: ma la scritta sotto cambia e si trasforma in divieto, “no children”, e in effetti le sagome sono sbarrate da una riga rossa obliqua. Altri adesivi puntano sull’ironia, un pupo piangente da cartone animato anche lui sbarrato, una carrozzella anch’essa annullata dalla sbarra diagonale.
Sono i locali “child free”, cioè vietati ai bambini. O meglio, dato che la legge in Italia non prevede che si possa vietare l’ingresso ai bambini, locali nei quali i bambini non sono graditi, del tutto o in alcuni orari stabiliti, perché danno fastidio. È la tendenza childfree (non childless, perché questo termine implica l’impossibilità a non averne di bambini, e quindi una certa sfumatura di sofferenza del tutto estranea al primo termine), che è quella dei locali più trendy, esclusivi, alla moda; nella maggior parte dei quali un genitore sano di mente si guarderebbe bene dal portarsi i figli, primo perché non si godrebbe la serata, secondo perché di questi tempi farebbe bene i conti prima di entrare.
Trascuriamo per un momento l’interpretazione più facile, che sembra legittima a tutti, e cioè che il gestore di un locale tutela la tranquillità dei suoi clienti impedendo che un bambino piangente e urlante li disturbi, trattenuto a forza al tavolo o lasciato scorrazzare in libertà. È probabile che, richiesto, il bambino stesso concorderebbe sul fatto che non ce la fa a stare a sentire seduto e immobile due ore di discussione fra adulti, e preferirebbe starsene a casa con la nonna. Il problema è quindi di educazione, di chi lo porta dove lui non vuole stare e dove gli altri non lo vogliono – dunque non del bambino, ma dei genitori; si possono creare zone esenti da maleducazione, così, per legge o convenzione?
Il fatto che questa tendenza “no kids” sia lessicalmente caratterizzata da termini anglosassoni ci fa capire da dove viene; i nostri esperti di marketing e pierre, così indulgenti con tutto quello che ci arriva battezzato dall’inglese, finiranno per convincere i gestori che l’adesivino segnala il locale alla moda, lo rende più ricercato. Altra questione quella che riguarda la possibilità di viaggiare con i bambini; e ricordiamoci che in Italia siamo fieri di aver introdotto la possibilità per i cani di viaggiare in treno con i loro padroni.
Non parliamo anche qui dei pargoli terribili che scalciano sulla poltrona del passeggero davanti a loro per tutto il viaggio; ma negli Usa è stata introdotta ultimamente, a quanto pare per ragioni di sicurezza, la regola un posto-un passeggero, che limita notevolmente i viaggi dei genitori con bambini piccoli, anche molto piccoli, che generalmente possono piangere, ma non molto di più. Certo, potrebbero disturbare l’anziana coppia di pensionati che si godono le vacanze fuori stagione nei resort childfree, che non sono più abituati a sentire chiacchiericci molesti al ristorante, che si scandalizzano se non possono far entrare con loro il cane, anche lui piuttosto invecchiato, al concerto o a teatro.
“Se siete childfree, l’Inghilterra è il paese che fa per voi, pieno di spazi per persone senza figli. Mi si è aperto un mondo…”. “Io sono childfree, la motivazione è semplice, non mi piace l’idea di fare il genitore, è una cosa che richiede tempo e dedizione… implica il doversi prendere cura di un individuo in modo non paritario. I rapporti paritari sono per me quelli in cui si riceve quanto si dona…”.
Ognuno è libero e può scegliere per sé; ma perché sembra di sentire, a queste parole, un vento gelido che ci soffia alle spalle?