Egregio direttore,

Premetto subito, sono un onesto delinquente.

Delinquente in quanto la giustizia italiana mi ha condannato (in appello, per adesso) per un reato – turbativa d’asta – commesso quando provavo a svolgere il mandato da sindaco di un comunello di pochi abitanti.

Onesto, perché, pur con tutte le difficoltà anche legate alla particolare congiuntura economica, ho in tutti i modi tentato di riprendere una vita “normale” che potesse sostentare la mia famiglia con i miei quattro figli.



Ci ho provato, senza fare il rumore che le tante ingiustizie (facilmente documentabili) subite avrebbero suggerito. Ci ho provato, con molta umiltà, cosciente che non potevo aspirare a continuare la carriera professionale che mi ha visto diventare dirigente di una multinazionale americana a 31 anni. Ci ho provato, con estremo realismo, accettando proposte di collaborazione “precarie” e a risultato. Ci ho provato, non accantonando la speranza di tornare a lavorare in una azienda mettendo a frutto la mia professionalità.



Fin qui non ne sono stato capace. E mi viene il dubbio che non dipenda solo dalle mie limitate qualità.

Infatti ho imparato che la nostra non è una società garantista.

Non ho ancora una sentenza passata in giudicato eppure ben sei aziende nell’ultimo anno, l’ultima proprio ieri (volendo vedere il bicchiere mezzo pieno potrei dire che le mie qualità professionali non sono poi da buttare via) mi hanno gentilmente, chi più chi meno, detto che la mia “vertenza” con la giustizia era incompatibile con una collaborazione con loro. Eggià perché io, da onesto delinquente quale sono, ho sempre ritenuto di dover ben spiegare ai miei interlocutori la mia situazione pensando che non si potesse prescindere, in un rapporto di lavoro, dalla reciproca lealtà.



Tutto ciò premesso, mi chiedo.

Ma se un tapino come il sottoscritto, con sulle spalle una “semplice” turbativa d’asta da poche migliaia di euro non è in condizione di trovare una occupazione, che ne è di chi si porta fardelli più gravosi? (preciso che ho detto “semplice” non per minimizzare né ironizzare, ma per marcare la differenza rispetto a reati che portano con sé anche pene significative e di gran lunga superiori).

Di qui la mia provocatoria proposta ai politici che tanto si affannano alla ricerca della migliore riforma della giustizia possibile.

Una volta che si viene condannati in primo grado si finisce subito in carcere senza alcuna possibilità di uscita (tanto nessuno darebbe un lavoro ad un delinquente). Anzi, per non gravare troppo sulle misere finanze pubbliche, si potrebbe, invece del carcere, introdurre la soppressione (credo che parlare di pena di morte risulterebbe politicamente scorretto in una società ipocrita come la nostra). Anzi, meglio ancora, per risparmiare ulteriormente e contribuire anche ad accelerare i tempi della giustizia, si potrebbe pensare alla soppressione una volta ricevuta la semplice notizia di reato, ovviamente previa opportuna e preventiva gonga mediatica.

Cordialmente

Giovanni

Tre post scrittum.

1. ho volutamente omesso qualunque commento alla mia “vertenza” giudiziaria non certo perché convinto delle decisioni fin qui subite, ma perché convinto che le “vertenze” giudiziarie (giuste o sbagliate che siano) vadano, comunque, trattate nelle opportune sedi

2. l’atteggiamento per cui si riduce una persona a ciò che ha fatto (di buono o di meno buono) è tipico del pensiero moderno e, probabilmente, è di ciascuno di noi anche (e soprattutto) relativamente a vicende meno eclatanti. E’ invece interessante osservare come la Chiesa, relativamente al peccato, insegni “che Gesù giudica e condanna il male, mai le persone vittime del demonio [chi ha commesso il peccato]” (Itinerario di preparazione alla Cresima, Pellegrino C., ellecidi)

 

3. ben disponibile a confrontarmi con chiunque – meglio se latore di proposta di lavoro – delle profonde ragioni della mia provocatoria proposta