È iniziato con un “fuori programma” l’incontro promosso venerdì scorso a Trento dal Banco Alimentare della regione per presentare un’indagine sulla possibilità di trasformare lo spreco di cibo in una valida risposta ai problemi della povertà che con la crisi sta crescendo in modo esponenziale. Aprendo gli interventi nella sala gremita della Fondazione Cassa di risparmio di via Calepina, il presidente regionale del Banco alimentare Duilio Porro ha proposto e recitato insieme ai presenti una preghiera per Cristina Pedri, la donna morta poche ore prima a Rovereto sotto le ruote di un camion. “Cristina – ha ricordato Porro – era una nostra cara amica e una volontaria particolarmente attiva”. I volontari come Cristina sono da sempre il cuore pulsante del Banco alimentare, impegnato in Italia dal 1989 nella raccolta e ridistribuzione ai poveri, attraverso moltissimi enti e associazioni caritative, delle eccedenze di tutta la filiera alimentare: dalla produzione ai supermercati, dai pubblici esercizi alle mense. Nel Trentino Alto Adige la Fondazione Banco alimentare onlus esiste dal 2003 anche se l’attività, resa popolare dalla “Colletta alimentare”, c’è dagli anni novanta.
Lucchini: tutto nasce dalla persona
Decisivi, dunque, sono i volontari. Non a caso tutto è nato da un volontario, il californiano John Van Hengel. A rievocarne la vicenda è stato Marco Lucchini, diretore generale della Fondazione Banco Alimentare onlus. Nel 1967 Van Hengel, ex playboy profondamente in crisi, finì in Arizona dove, grato ai frati francescani della parrocchia cattolica di Saint Mary a Phoenix da cui era stato accolto, si mise a dare una mano alla loro mensa per i poveri. Gli alimenti però non bastavano. Un giorno John rimase colpito da una donna, madre di dieci figli, bisognosa di tutto tranne che di cibo. Per capire perché iniziò a seguirla. Scoprì che la donna si faceva regalare dai supermercati della città il cibo invenduto ma ancora buono che sarebbe stato buttato. Geniale. Van Hengel iniziò a fare lo stesso per la mensa dei frati. In poco tempo riempì una stanza di alimenti. Felice, lo racconto alla donna che gli rispose con una battuta: “noi poveri avremmo bisogno di una banca del cibo”. Altra intuizione: con il nome suggerito da quella madre John chiamò “Food Bank” il primo Banco alimentare del mondo. “Questo vuol dire che se sappiamo osservarli e ascoltarli – ha commentato Lucchini – sono i poveri stessi ad insegnarci cosa fare”.
Donare soddisfa: due esempi.
Il direttore ha messo l’accento sulla possibilità che chiunque ha di dar vita anche nel proprio piccolo al Banco alimentare. Con due esempi. Il primo di una signora meridionale che, saputo di una mensa per poveri dove non c’era abbastanza da mangiare, ha aggiunto al proprio orto di casa una fila di insalata da regalare a quell’iniziativa. Poca cosa, si dirà. Vero, ma la donna ha proposto ai vicini di fare lo stesso con il loro orto, e adesso sono decine le file di insalata e pomodori destinate a quella mensa. L’altro caso viene da un quartiere di Milano molto popolato da single, alcuni dei quali hanno deciso di non cucinare più solo per se stessi ma anche per degli anziani vicini. Con poco sforzo – cucinare anche per altri – da un lato hanno risposto a un bisogno, dall’altra si sono accorti che è più bello mangiare in compagnia. “Ciò dimostra – ha chiosato Lucchini – che il cibo è in primo luogo una grande opportunità di incontro e unità. Secondo: se condiviso con gli altri fa riscoprire il senso e l’attualità del termine ‘prossimo’. Terzo: si capisce che a donarlo non ci si rimette ma si è più contenti di prima”. “Tuttavia oggi – ha concluso il direttore – il profondo cambiamento in atto ci costringe non solo ad agire ma anche a studiare. Il Banco alimentare ha oggi bisogno di un salto di qualità per adeguarsi a questo cambiamento in termini di professionalità e organizzazione, con una chiara suddivisione di responsabilità, ruoli e compiti”.
Borgonovo Re: la sussidiarietà è collaborazione.
A riprendere il valore della responsabilità personale evidenziato da Lucchini come fattore indispensabile per concorrere al bene comune, è stata anche l’assessora provinciale alla salute e alle politiche sociali Donata Borgonovo Re. Nel suo saluto Borgonovo Re ha apprezzato in particolare un aspetto emergente dall’esperienza del Banco alimentare: la sussidiarietà. “Rispetto a una Provincia che da noi è un po’ troppo assorbente – ha avvertito – è molto preziosa l’iniziativa delle associazioni come la vostra, più vicine alle persone e per questo più capaci di rispondere ai bisogni. Ciò non toglie che l’ente pubblico sia tenuto a collaborare con le associazioni attive nel campo della solidarietà sociale. In questa collaborazione tra pubblico e privato sta, appunto, la sussidiarietà”.
Folloni: la povertà cresce rapidamente anche nel Trentino.
In precedenza Giuseppe Folloni, docente al dipartimento di economia dell’Università di Trento, ha introdotto la presentazione della ricerca illustrando i dati Eurostat sulla rapida evoluzione della condizione di povertà verificatasi tra il dal 2008 e il 2012 sia in Italia che nella nostra regione. Siamo tra i Paesi messi peggio in Europa in termini sia di povertà relativa (chi non può permettersi una spesa mensile per consumi pari alla spesa media procapite nel Paese che nel 2010 era di 992,46 euro al mese) che di povertà assoluta (chi non è in grado di procurarsi il necessario per vivere e quindi anche un’alimentazione di base sufficiente). Impressiona l’aumento delle persone a rischio di esclusione sociale, passate in Italia da 15,1 milioni nel 2008 ai 18,2 milioni del 2012. Da questo punto di vista fra il 2009 e il 2012 le cose sono decisamente peggiorate più nel Trentino che nella vicina provincia di Bolzano, anche se da noi e in Alto Adige la situazione è comunque molto migliore rispetto alla maggior parte delle altre regioni del Paese. Sempre più alta in Italia è poi la quota di assistiti dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea). Folloni ha ricordato che nel 2012 l’Unione europea ha adottato un nuovo strumento di politica sociale, il Fondo Europeo di Aiuto all’Indigenza (FEAD) per alleviare le peggiori forme di povertà, compresa quella alimentare. In definitiva, per Folloni dagli studi emerge che la povertà non si combatte solo con più risorse ma anche con la capacità degli abitanti di un Paese di agire insieme per il bene comune o per un fine che trascenda l’interesse materiale immediato di una famiglia. Ma per questo servono motivazioni la cui origine si può trovare solo nella persona.
La ricerca presentata da Perego: non sprecare le eccedenze conviene a tutti.
A presentare la ricerca oggetto dell’incontro è stato Alessandro Perego, professore ordinario di logistica e supply-chain management al Politecnico di Milano, uno dei tre curatori dell’indagine che, realizzata in collaborazione con Fondazione per la sussidiarietà e Nielsen Italia, è raccolta nel volume “Dar da mangiare agli affamati. Le eccedenze alimentari come opportunità” (Guerini e Associati). Perego ha premesso che il problema di fondo è culturale e di comunicazione. Ancora troppo spesso, infatti, gli alimenti prodotti in eccesso dalle aziende agricole, della trasformazione o che restano invenduti nelle strutture della distribuzione e della ristorazione, sono considerati uno spreco da evitare e non un’opportunità e una risorsa da valorizzare. L’ipotesi di lavoro della ricerca è consistita nel dimostrare che le eccedenze sono, invece, in larga parte inevitabili e, se gestite con consapevolezza e soprattutto collaborazione tra imprese e associazioni come il Banco alimentare, possono risultare “fungibili”, cioè utilizzabili per rispondere ai bisogni sociali oggi moltiplicati dalla crisi.
Ovviamente le eccedenze alimentari nella filiera che porta dalla produzione e trasformazione fino alla distribuzione e al consumo, sono tanto più fungibili (la fungibilità può essere alta, media o bassa) quanto maggiori sono le possibilità di recupero è la “durata” dei cibi. Dall’indagine, ha spiegato Perego, emerge che ogni anno in Italia si generano 6 milioni di tonnellate di eccedenze alimentari (di cui 2,3 dall’agricoltura e 2,5 dai consumatori finali), il cui valore è pari a circa 13 miliardi di euro. Il valore pro-capite dell’eccedenza è di 101 kg e 220 euro. Interessante è il fatto che il 54% dell’eccedenza generata nei vari segmenti della filiera è ad alta o media fungibilità. Gli alimenti che in Italia potrebbero essere utilizzati per rispondere al bisogno sociale ma non lo sono e che quindi costituiscono uno “spreco”, ammontano annualmente a 5,5 milioni di tonnellate, pari al 16% dei consumi e al 92,5% dell’eccedenza, per un valore di 12,3 miliardi di euro. Anche se lo spreco è minore nei segmenti in cui la fungibilità delle eccedenze è maggiore, il 51% dello spreco è a medio-alta fungibilità. Il 55% dello spreco alimentare è generato dalle varie imprese della filiera, e il 45% nelle famiglie. Dei 6 milioni di tonnellate di eccedenze all’anno, 3,2 sono ad alta o media fungibilità (5,4%). Naturalmente le eccedenze possono servire (sono fungibili) oltre che all’alimentazione umana, anche all’alimentazione animale, oppure diventare rifiuto valorizzato o non valorizzato. Quasi il 50% dello spreco alimentare (5,5 milioni di tonnellate all’anno) presenta una fungibilità media, il 2% alta fungibilità e il resto bassa fungibilità. Perego ha evidenziato che già oggi l’industria di trasformazione e i centri distributivi della grande distribuzione organizzata (GDO) recuperano con la collaborazione del Banco alimentare il 50% delle eccedenze alimentari ad alta fungibilità. Restano da mettere in campo azioni per diffondere queste best practice valutandone sia la convenienza economica che l’impatto sociale. Dell’eccedenza a media fungibilità prodotta per il 51% da Ortofrutta, Trasformazione “freschi” e “surgelati”, Punti vendita GDO, Ristorazione Collettiva, è invece recuperato solo il 10%. “C’è quindi spazio – ha segnalato Perego – per introdurre processi strutturati di gestione delle eccedenze (soprattutto nei “nodi” a maggiore capacità logistica) con l’integrazione con intermediari specializzati. Le conclusioni della ricerca evidenziate da Perego riguardano la responsabilità dei tre soggetti interessati: gli attori economici; gli intermediari come il Banco alimentare; e l’ente pubblico. Per le imprese della filiera alimentare si tratta di maturare la convinzione culturale che l’eccedenza non è un “errore di cui vergognarsi” perché è in parte fisiologica e costituisce, anzi, una opportunità.
Purché sia gestita non più in modo estemporaneo ma con processi strutturati, mediante lo sviluppo di modelli di stima dei benefici economici derivanti dall’uso di canali “professionali” di gestione delle eccedenze. Agli intermediari come il Banco alimentare l’indagine suggerisce di crescere nella professionalità, nella logistica, nella trasparenza (dei processi) e nella capillarità. Quanto agli attori pubblici (Stato, Regioni, Province, Comuni), per favorire la ricaduta sociale delle eccedenze sono chiamate a sviluppare strumenti di diffusione della conoscenza e monitoraggio del fenomeno (creando ad esempio una banca dati), a favorire l’adozione dei modelli virtuosi (ad esempio incentivi fiscali a chi dona e a chi “aiuta”, agli operatori logistici e agli intermediari come il Banco alimentare), e promuovere progetti pilota nei segmenti a minore fungibilità (come ad esempio la ristorazione commerciale e i punti vendita). All’incontro del Banco alimentare sono intervenuti con un saluto anche l’arcivescovo Luigi Bressan, il presidente del Sait Renato Dalpalù e, per la Fondazione cassa di risparmio di Trento e Rovereto, Gianni Benedetti.
(Antonio Girardi)