Valentina e Fabrizio sono una coppia finita al centro di una drammatica vicenda. La donna è rimasta incinta ma l’esame dei villi coriali ha rilevato una grave malformazione del feto. Al quinto mese di gravidanza la madre ha chiesto di abortire, ma tutti i medici presenti nell’ospedale Pertini hanno fatto obiezione di coscienza. E così Valentina ha abortito da sola nei bagni della struttura medica. Ospitiamo l’intervento di Paola Bonzi, presidente del Centro di Aiuto alla Vita (Cav) dell’Ospedale Mangiagalli di Milano.
Mi piacerebbe tanto poter dire a Valentina e Fabrizio la mia condivisione per la loro sofferenza, che è un po’ anche la mia. Come sempre nel momenti in cui mi ritrovo a considerare questo genere di situazioni, arrivo alla conclusione che tutto viene ingenerato da una posizione culturale ed etica secondo la quale noi ci sentiamo sempre i padroni della vita. Noi la possiamo costruire, selezionare, sistemare nel posto giusto, sopprimere quando non è più come avevamo desiderato.
Mi torna alla mente una situazione da me incontrata al quinto mese di gravidanza, dopo l’ecografia morfologica, che aveva dato come esito feto anencefalo. Il dolore di quei genitori appariva proprio come qualcosa di impossibile da sopportare, visto quanto quel bimbo era stato desiderato. Diverse persone “addette ai lavori” mi hanno chiesto allora un parere sul da farsi; qualcuno di molto importante a livello morale mi aveva detto “se comunque quel bambino morirà, tanto vale interrompere la gravidanza facendolo morire ora”.
Sono stata vicina a quella donna, incontrandola più e più volte fino a quando in lei è scaturito il desiderio di permettere a quel figlio di nascere, magari anche per vederlo morire in quello stesso attimo. Così la gravidanza è andata avanti; anche quella era una bambina che si muoveva all’interno dell’utero della mamma con grande mobilità, e la mamma accettava con “gioia” quei segnali di vita, sapendo che comunque prima o poi tutto sarebbe finito; ma lei era la madre di una bambina che aveva trovato accoglienza nel suo grembo. Arrivò anche il momento del parto; mi hanno riferito che entrando in sala parto chiedeva reiteratamente che io fossi avvisata dell’evento.
Daniela ha partorito, e la sua bambina è morta esattamente nell’attimo in cui veniva alla luce. Ho rivisto Daniela tempo dopo, e la prima cosa che mi ha detto è stata: “Grazie. I nostri colloqui sono serviti a permettermi di accompagnare la mia bambina a morire senza un intervento abortivo. Sono serena”.
La natura ha potuto fare il suo corso, senza azioni che intervenissero sulla vita e sulla morte. Ogni cosa ha trovato il suo posto, pur nel dolore.
Non vorrei che ciò costituisse una sorta di sermone per alcuno, tanto meno per Valentina e Fabrizio. Non sono un’esperta di legislazione, di procedure sanitarie, di comportamenti da tenere all’interno di strutture ospedaliere; forse però sono “esperta” di umanità. Ho incontrato tante donne con problemi di gravidanza, tante madri per cui la grossa difficoltà era costituita da una diagnosi infausta; non ho la ricetta del buon vivere in tasca, so però che lasciar fare alla natura libera i genitori dall’ansia di dover decidere della morte del proprio figlio, e lascia, soprattutto nella madre, un senso di pace.