La comunità islamica milanese preme affinché si affretti la realizzazione del progetto, vecchio di almeno vent’anni, di costruire una grande moschea nella città. La zona prescelta sarebbe quella del vecchio Palasharp.
La richiesta appare più che ragionevole, dato il grande numero di musulmani presenti nella nostra città. Ci sono tuttavia troppi aspetti poco chiari nella vicenda, troppe domande alle quali bisognerebbe dare una risposta prima della concessione dell’area e prima che le ruspe si mettano in azione.
In prima linea troviamo il Caim (Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano), che ha messo anche in giro un video in cui i giovani musulmani milanesi invocano la moschea come un “diritto”. Possiamo concordare che si tratti di un diritto, ma poiché in Arabia Saudita anche solo il farsi il segno della croce è considerato un crimine, vorrei sapere se in questo progetto c’è del denaro saudita. Penso che un solo euro saudita renderebbe improponibile il progetto.
Che una moschea debba avere una cupola e un minareto, siamo d’accordo tutti, però è necessario monitorare il progetto per evitare una deriva simbolica. Una grande moschea a Milano rappresenta una vittoria non solo per gli uomini di fede ma anche per tutti coloro che, all’interno del mondo islamico (e sono in tanti), leggono il rapporto tra islam e occidente in termini di forza e di potere.
Non mi persuade del tutto nemmeno l’atteggiamento minimizzante di chi sta avanzando la richiesta: voi dateci l’area, dicono, al resto pensiamo noi.
Al resto ci si pensa tutti insieme, qui sta il punto. La costruzione di una grande moschea non è un problema della comunità islamica milanese al quale la città debba rispondere solo offrendo un’area edificabile: è un problema della città tutta, è un progetto su cui la città decide un pezzo importante del suo futuro. Perciò altro che area fabbricabile! Della nuova moschea è responsabile tutta la cittadinanza.
Il tallone d’Achille si nasconde proprio qui. Non nella comunità islamica, ma nella città. L’esperienza ci insegna che le cose possono andar bene solo là dove le responsabilità si assumono insieme, per una decisione comune. Il discrimine tra un uso reale, ossia religioso, e un uso strumentale di un’occasione come questa sta nell’atteggiamento della città intera. Siamo noi milanesi a decidere se la grande moschea sarà un’opportunità per tutti o l’ennesimo scalino rotto, sul quale la città inciamperà.
Io credo che questo non sia soltanto un problema di regole o di modelli di convivenza. È, piuttosto, un problema antropologico. Di fronte alle sfide che la realtà ci pone, siamo chiamati a decidere se la prima cosa da fare sia di accettare la realtà oppure di aggrapparci ai nostri principi, alle nostre idées reçues.
Non si tratta di rinunciare alle proprie strategie, ma di decidere cosa viene prima: se la realtà (l’altro, ciò che differisce da noi) è un’opportunità o solo il pretesto per affermare le proprie posizioni pregresse (c’è chi pensa che i musulmani faranno sventolare la mezzaluna sulla cima del duomo e chi pensa che siano tutti buoni).
Non è un problema di modelli di convivenza, ma − com’è nella grande tradizione milanese − di cittadinanza: del cittadino che ciascuno di noi decide di essere. La storia di Milano è la storia dei suoi cittadini, non quella dei suoi monumenti. Solo così la grande moschea può funzionare: se diventa l’opera responsabile di tutta la città.