La scorsa settimana, a Lecco, una donna ha ucciso le sue tre figlie e poi ha tentato di uccidersi. Suo marito, dal quale si stava separando, ha scritto insieme ai nonni e agli zii una lettera che è stata letta durante il funerale delle piccole. In questa lettera l’uomo chiede perdono alle proprie figlie, si rifiuta di giudicare il gesto della moglie e implora le sorelline affinché, dal paradiso, vigilino e proteggano la loro famiglia. 



Io non so quanti di noi abbiano la forza e il coraggio di provare a immedesimarsi veramente in quest’uomo, in questo marito, in questo padre. Credo che sia vietato entrare con i nostri giudizi nella storia di una famiglia, nei suoi drammi e nei suoi dilemmi, mentre invece penso che fatti come questo possano aiutarci a capire molte cose.



A tal proposito, in una delle strade che conducono alle mie parrocchie ci sono dei tornanti. Il tornante è un tratto di strada molto interessante perché ti permette di tornare indietro, dove sei già passato, ma ad un’altezza diversa. Alcuni eventi della nostra esistenza sono proprio dei tornanti: ci restituiscono alla vita e alle cose di sempre con una consapevolezza inedita, nuova. Il tornante è una curva pericolosa, non è un tratto di cammino da percorrere a cuor leggero. Per alcuni genitori il tornante è la morte di un figlio, per altri la scoperta che il proprio figlio non è come avevano pensato che fosse, per altri ancora il tornante si materializza quando il loro figlio nasce con una malformazione o con una sindrome che difficilmente gli potrà consentire quella che noi, con una certa ingenuità, chiamiamo “vita normale”. 



I tornanti sono parti costitutive della nostra vita e ci obbligano a riprendere in mano quello che noi consideravamo scontato. In pochi giorni il padre di queste bimbe ha dovuto ridomandarsi che volesse dire essere papà, essere marito, essere uomo. La sua lettera manifesta una grandezza umana impressionante e un desiderio vivo di assumersi tutte le responsabilità che gli spettano. Ma il punto, però, non è neppure questo: il nostro cuore infatti non cerca colpevoli o confessioni di meschinità, ma cerca senso, cerca significato. Finché ragioniamo nell’ottica delle colpe e delle giuste punizioni è come se stessimo un passo indietro rispetto alla reale portata del desiderio del nostro cuore.

La verità, dura e amara, è che la nostra vita non è fatta per i figli, né per la moglie, né per il resto. La nostra vita è fatta per un compimento che sta dentro e al di là di tutto, un compimento che ci porta a generare e ad amare con libertà, con la consapevolezza che noi partecipiamo ad una Paternità e ad una Maternità più grande, quella di Dio. 

Se ognuno fosse padre o madre solo per le proprie forze, ma anche marito o moglie, renderebbe il proprio figlio – o il proprio matrimonio – un prodotto del suo sforzo e del suo impegno e non un semplice e misteriosissimo dono. La vita, invece, non può mai essere totalmente afferrata o posseduta: la vita ci è sempre affidata, consegnata, per un certo tempo. 

Noi viviamo non per trattenere, ma per restituire. Solo restituendo, infatti, sperimentiamo la libertà vera e l’amore autentico, solo restituendo impariamo a costruirci come persone, come amanti, come genitori. Tutta la vita è una grande scelta fra la tentazione latente del possesso, e quindi della violenza, e la delicatissima possibilità dell’amore che sgorga, quotidianamente, dal riaccorgersi continuamente che ogni istante è un “presente donato”, una Parola con la quale Dio ci interpella e ci chiama a costruire e a donare. L’illusione del nostro tempo è proprio quella che possa esistere qualcosa di totalmente mio. Nello sguardo della fede, di chi sta davanti ad una Presenza, tutto è mio perché tutto è di Cristo. E io possiedo la realtà solo nella misura in cui partecipo del possesso misterioso e libero di Cristo. 

Nessuno è padrone del proprio figlio o della propria moglie: tutti riceviamo la vita, il lavoro, le giornate, come un dono gratuito di cui – un giorno – dovremo rendere conto. Ma, in realtà, già ogni giorno rendiamo conto di come trattiamo la realtà. La sofferenza, in effetti, spesso testimonia quanto riteniamo nostro ciò che nostro non è, quanto riteniamo dovuto ciò che invece è gratuito, quanto siamo sindacalisti dei nostri diritti più che figli di un unico Padre.

È proprio questo atteggiamento di possesso e di proprietà che ci porta a soffrire. Perché tra il dolore e la sofferenza c’è proprio un abisso: il dolore da un lato brucia ed educa, la sofferenza dall’altro rivela il nostro giudizio ultimo sulle cose: più soffriamo per qualcosa, più abbiamo surrettiziamente considerato quel qualcosa come dovuto, come un diritto nostro inalienabile. Quando siamo dilaniati dal dolore, allora, le nostre lacrime sono solo l’alba di un uomo nuovo, mentre quando siamo distrutti dalla sofferenza ciò che poi nasce è la rabbia, il desiderio di vendetta, la latente recriminazione. 

Noi, quindi, non sappiamo che cosa ci sia nel cuore di un padre che perde le sue tre figlie, non sappiamo neppure che cosa ci sia nel cuore di un marito che vede la propria moglie uccidere, ma sappiamo – certamente – quanto ognuno di noi ha bisogno di imparare che tutto è dono e che tutto può esserci portato via da un momento all’altro perché di tutto, in realtà, noi siamo semplicemente custodi. È questo il mistero dell’uomo, il mistero di quell’ultima solitudine di fronte al Destino che – ogni giorno – ci sfida a prendere una posizione, di amore o di violenza, dinnanzi ad ogni particolare della vita. Soprattutto di fronte agli occhi e al volto delle persone con cui ognuno di noi desidera seriamente andare in Paradiso.