Sul Sussidiario abbiamo segnalato per tempo che il “cartellino rosso” agitato dall’Appello di Milano al procuratore aggiunto Alfredo Robledo nel processo sui derivati del Comune di Milano era gravido di significati e possibili conseguenze, al di là del merito tecnico-giuridico della clamorosa cancellazione delle condanne in primo grado ottenute da Robledo contro banche globali del calibro di JP Morgan, Ubs e Deutsche Bank. Oggi, dopo l’altrettanto clamorosa denuncia preparata da Robledo al Csm contro il suo capo – Edmondo Bruti Liberati – insistiamo con alcune riflessioni: spinti, ancora una volta, a guardare oltre il contenuto della controversia, che pure non è da poco.
Un conflitto sull’attribuzione dei fascicoli può rientrare – entro certi limiti – nella fisiologia relativa di un singolo palazzo di giustizia o dell’amministrazione giudiziaria nel suo complesso. Ma non potrà mai essere fisiologico a Milano: a maggior ragione se l’escalation del caso diventa procedura nell’organo di autogoverno di giudici e inquirenti e finisce sulle prima pagine dei giornali (quasi un contrappasso rispetto a centinaia di pagine di intercettazioni giudiziarie…). Né può essere normale un conflitto che esplode al massimo livello, fra il capo della Procura e il suo “aggiunto”, delegato ai reati contro la Pubblica amministrazione: la storica “ditta” del palazzo milanese, da Mani pulite in poi. Una mission che resta strettamente collegata a tutte le nuove emergenze: prima fra tutte la criminalità finanziaria, a sua volta simbiotica con la lotta al riciclaggio e all’evasione fiscale e quella tout court contro mafia-ndrangheta-camorra che infiltrano economia e società e distruggono democrazia e legalità.
L’inchiesta e poi il processo sul caso dei derivati del Comune di Milano, su questo piano, sono stati emblematici: per questo ha destato clamore il brusco stop fischiato dai magistrati di merito di secondo grado al “loro” procuratore. Simbolico è – per buona parte – anche il fascicolo conteso oggi fra Robledo e “l’aggiunto” ai reati finanziari: Francesco Greco, nome storico del quarto piano milanese fin dai glory days di Tangentopoli. Nel mirino c’è l’intervento del Fondo F2i (Cassa depositi a prestiti) nel riassetto proprietario della Sea, una partita interna ai grandi enti locali milanesi – Comune e Provincia – attorno a una grande infrastruttura-Paese come i due aeroporti di Milano. Altrettanto inevitabile che siano coinvolti nomi di grido a cavallo fra finanza e politica: da Vito Gamberale (candidato semi-ufficiale alla presidenza Telecom) ad Alessandro Profumo, attuale presidente di Mps. È un dossier che attiene più la finanza di mercato o la frontiera sempre problematica fra pubblico e privato? La discrezionalità di Bruti Liberati sta correttamente valutando la sostanza dell’inchiesta? Oppure – con la malcelata avversità di Robledo – finisce per privilegiare un approccio new, più flessibile e dialogante con l’evoluzione dei mercati? Quell’approccio che certamente Robledo non ha mai condiviso, venendone peraltro punito dall’Appello milanese?
Nessuno può dubitare – al di là delle ipocrisie e dei moralismi – che nello scontro ai vertici della Procura di Milano abbiano un peso anche motivazioni di puro potere. Anzitutto il potere dei singoli, anche al di là della gestione quotidiana dei casi. Non è un mistero che Greco resti candidato (lo è da anni) a incarichi diversi, non esclusi quelli esterni all’ordine giudiziario: si dice, ad esempio, la presidenza della Consob (authority decimata, guidata da Giuseppe Vegas, espressione del centrodestra, seduto su una poltrona probabile oggetto di nomine nel grande round primaverile). Nessuno dubita neppure che Robledo sarebbe il primo candidato a prendere il posto di Greco a capo di quella che è nei fatti la “super-procura finanziaria” italiana. Lo resta anche dopo che l’Appello di Milano ha espresso una valutazione oggettivamente negativa sulla sua azione nel perseguire ciò che è penalmente rilevante sui mercati finanziari. Ma – ragionando sempre di carriere, decise dal Csm – sarebbe un errore anche eludere interrogativi diversi.
Il primo – circoscritto, ma molto delicato – riguarda le fratture emergenti in un’area della magistratura tradizionalmente considerata tanto militante quanto compatta. Un commentatore “vetero-berlusconiano” pungerebbe: Robledo provoca Bruti Liberati su chi è “veramente di sinistra”. La realtà – fortunatamente per il Paese – è meno rozza e più complessa. Il commentatore del Sussidiario riprova a metterla così: Robledo esprime una magistratura “militante” nel senso più proprio (e quindi in sé rispettabile) dell’accezione. Robledo è convinto che il capitalismo finanziario (bancario) – “qui e ora”, domestico o globale – rappresenti una minaccia comprovata e permanente per lo sviluppo della civiltà politico-economica: e – a differenza dei colleghi dello Stato di New York, che non hanno mai neppure interrogato l’ex Ceo di Lehman Brothers, Dick Fuld – non mostra cautele o attenzioni di fronte ad alcun big name, sia esso un grande marchio o un top manager. Naturalmente lo fa lavorando, inchiesta dopo inchiesta, processo dopo processo. Bruti Liberati e Greco hanno curricula altrettanto inattaccabili, ma è un fatto (non un giudizio) che la “loro” Procura di Milano non ha per ora dato seguito – ad esempio – all’inchiesta sui legami fra Mediobanca e il crac del gruppo Ligresti.
Sintetizzando – forse troppo – la Procura di Milano sembra già da tempo sintonizzata su quello che pare essere un umore di fondo della fase politica personificata dall’avvento di Matteo Renzi: “rottamazione” può fare rima – nei fatti – con “abbassamento generale dei toni”; “ripresa italiana” può essere sinonimo di “superamento di conflittualità strutturali”, “ridimensionamento di protagonismi” o ”attenzione agli interessi generali di un Paese in sofferenza” (abbiamo già avuto modo di accennare alla coincidenza fra l’assoluzione di Ubs e la forte priorità data dal governo Renzi a un accordo con la Svizzera per il rientro dei capitali italiani e la normalizzazione fiscale). L’esito mediatico è comunque una breccia nel muro monolitico (“mitico”) della Procura di Milano. Ancora una volta: un fatto, non un giudizio.
C’è comunque dell’altro. Altri “senatori” della Procura di Milano – da Armando Spataro a Ilda Boccassini – sono da tempo in lista d’attesa per un incarico di definitivo prestigio a conclusione di carriere vissute in prima linea. Poltrone adeguate da assegnare non ne mancano: fra tutte la successione a Giancarlo Caselli come procuratore capo di Torino; e quella di Giuseppe Quattrocchi a Firenze (il palazzo di giustizia finora “competente” sul sindaco Matteo Renzi). La stanza di compensazione istituzionale sarà ovviamente il Csm: sui cui tavolo la “questione milanese” è però ormai divenuta più centrale. Forse non solo per il risiko delle cariche ma anche per aggiustamenti più profondi all’interno dell’establishment giudiziario e nel suo riposizionamento nell’incubatoio della “Terza Repubblica”.