Ha parlato della nonna, della mamma, del prete che gli ha strigliato l’anima, ma poco o niente, nel primo anno di pontificato, del suo papà. Francesco, nel giorno di San Giuseppe, ha sicuramente pensato a lui. E sono sicura di aver individuato anche il momento preciso. Quando al termine della catechesi in piazza San Pietro, ha chiesto di pregare per tutti i papà del mondo. Si è fermato un attimo, sospeso il flusso di parole, e ricordato anche i molti papà che sono presso il Signore. 



Nel suo ormai abituale colloquio con la piazza, dopo la consueta conta per alzata di mano su quanti degli uomini presenti avessero generato, ha inglobato nella benedizione invocata per intercessione di san Giuseppe, anche i tanti padri che Dio ha chiamato a sé. “Possiamo farlo insieme” ha detto “ognuno ricordando il suo papà, se è vivo e se morto”. Poi la preghiera al Padre di tutti, l’Eterno, un Padre nostro recitato dalla folla di fedeli, rapiti dalla commozione e dalla nostalgia. 



Il suo papà, così come lo ha descritto nelle interviste da arcivescovo di Buenos Aires e nella chiacchierate tra gli amici, doveva essere uno tosto. Dopo aver attraversato l’oceano, dal Piemonte all’Argentina, aveva lavorato come fattorino nel negozio di famiglia, per poi passare dalla consegna delle merci con la cesta ai libri contabili di una ditta amministrativa. Una moglie conosciuta all’oratorio e cinque figli. Religioso e forte, aveva il fare argentino ma nel cuore una nostalgia lacerante per l’Italia. Aveva ereditato la sofferenza per l’abbandono della propria terra dalla madre, la straordinaria nonna che Bergoglio cita in continuazione, un dolore che gli impediva di parlare piemontese. Un emigrante irrisolto, uno di quelli che preferiva guardare la Pampa piuttosto che il mare, per non sentire più l’odore di casa portato dal vento. Eppure doveva essere anche molto simpatico: giocava a briscola e portava i figli alle partite di basket del San Lorenzo. Un cestista che non ha mai alzato le mani sui figli lasciando alla moglie il compito di tirare qualche ceffone, e che quando il figlio diciassettenne gli confidò di aver incontrato Dio e che il Signore lo stava aspettando, rispose “Bueno!”, visibilmente felice. Anzi fu proprio quel padre comprensivo e tenero a fare da scudo con la mamma del futuro pontefice, poco convinta che quella fosse la strada per il figlio. Certo oggi deve ridersela un bel po’, scuotendo la testa per tutta quella testarda opposizione. 



Ecco, il padre di Jorge Mario Bergoglio doveva essere un bel tipo. Il padre che tutti vorrebbero avere. Quello per cui deve essere facile pregare. Uno che con San Giuseppe aveva molto in comune. Sicuramente la qualità di custodire, di accompagnare il proprio figlio nel cammino di crescita “in sapienza, età e grazia”. 

Non so se ci avete fatto caso, ma tutti i genitori degli ultimi pontefici erano delle buone e brave persone. Ricordate il padre di Wojtyla, l’ex-ufficiale asburgico in pensione, che rimasto vedovo aveva tirato su l’ultimo figlio rimasto in vita da solo, preparandogli la zuppa di latte e avena la mattina prima di uscire di casa e giocando con lui a palla nella camera e cucina dove vivevano a Wadowice? 

E che dire del padre di Joseph Ratzinger, gendarme bavarese, intuitivo e umile, che subodorò la follia nazista e ne provò disgusto, mettendo in guardia la sua famiglia cresciuta a musica, canti, passeggiate domenicali e rosari? E poi i papà di Luciani, Montini, Roncalli. Insomma sant’uomini che hanno generato ed educato santi pontefici. Perché come è ovvio, niente è più importante di qualcuno che ti allevi, che si preoccupi che non ti manchi il necessario, che ti protegga se un pazzo di nome Erode ha deciso che è meglio farti fuori e togliersi il pensiero, che ti insegni un mestiere, che ti nutra di pane e Sapienza, che ti porti in Sinagoga per ascoltare le Scritture e che poi ti consegni al tuo destino. 

Questo ha fatto Giuseppe, ha spiegato ieri il Papa. Ma alla fine non è quanto hanno fatto i nostri santi genitori, magari con qualche limite in più? E in fondo non è quello che cercano di fare i padri di oggi, con molto più affanno e tante incertezze? Ciò che Bergoglio, forte di una bella esperienza di paternità vissuta ed esercitata nella castità, ha provato a spiegare ieri è che per fare il padre occorre stare molto vicini ai propri figli. “Vicini, vicini”. Non incollati, ma abbastanza prossimi da lasciare alla prole la libertà di crescere. Perché i figli hanno bisogno di presenza, vicinanza e amore. Si può crescere in “Grazia”, proprio “grazie” al lavoro instancabile del proprio padre. Anch’io ho pensato al mio “babbo”. Ho pregato per lui, per tutto il bene che mi ha voluto. Per essere stato così simile a Giuseppe, in pazienza, umiltà e amore. Per essersi preso “cura” di me in vita e dal cielo. Se qualcuno di voi non è riuscito a farlo ieri, lo faccia oggi. Reciti il Padre Nostro per il suo papà. Anche e soprattutto se non è stato un buon padre.   

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