La Crimea in versione “polenta e osei”. Torna a far parlare di sé il Veneto per l’ancestrale voglia di indipendenza: la stessa che 18 anni fa spinse otto “serenissimi” ad espugnare il campanile di San Marco, e che oggi si ripropone via web. Spacciando per referendum un semplice sondaggio, e sciorinando numeri che molti credono tarocchi: quasi 2 milioni 400mila veneti avrebbero votato, annunciano gli organizzatori. Sta di fatto che nella piazza dov’è avvenuta la proclamazione del risultato c’erano sì e no 400 persone. E il paragone con le vicende russe declinato in dialetto veneziano fa solo ridere: lì c’è un signore che si chiama Putin, qui c’è una galassia di movimenti che da oltre trent’anni perseguono lo stesso obiettivo ma litigano ferocemente tra loro; senza aver portato a casa uno straccio di risultato.
I termini del problema sono chiarissimi, come ha spiegato uno dei maggiori costituzionalisti italiani, Mario Bertolissi (friulano di origine e padovano di adozione), che da sempre è in prima linea nell’invocare un federalismo vero. Un referendum vero e proprio non sta in piedi: lo vieta esplicitamente la Costituzione. E se anche il Consiglio regionale veneto volesse organizzarne uno di suo, come chiedono alcuni suoi esponenti, rischierebbe seriamente di venir dichiarato decaduto da Roma. Gli organizzatori della chiamata al voto via web già proclamano che le elezioni regionali del 2015 non si faranno, e che loro proclameranno l’indipendenza del Veneto; nel frattempo hanno preannunciato la nascita di un “Consiglio dei Dieci”, riesumando una delle istituzioni della rimpianta Serenissima. Tra loro, in prima fila, si è messo in mostra anche qualcuno che nel settembre 1996 ostentava la propria presenza su un altro palco, quello di Venezia, mentre Umberto Bossi dava pubblicamente allo Stato italiano un anno di tempo per trattare; altrimenti subito dopo la Padania avrebbe proclamato la sua indipendenza.
Come tutti sanno, non è successo niente; anzi, per unanime denuncia il centralismo è più forte che mai, e del federalismo non si sente più parlare; mentre le Regioni sono in primo piano per gli sprechi, l’incapacità di governo, le allegre spese di tanti loro consiglieri. Da allora, il Veneto ci ha provato più volte, e svariati sono stati i tentativi di dar vita a formazioni che ne rivendicassero l’indipendenza; c’è stato anche chi ha dato vita a sedicenti governi e ha diffuso a dritta e a manca proclami, rimasti puntualmente senza esito. Qualcuno è arrivato a contestare il diritto dei tribunali “italiani” di giudicare dei venetisti, perfino quando uno di loro ha sparato a un direttore di banca nel Padovano, rischiando di ucciderlo.
Quale strada, dunque, dopo la consultazione che in questi giorni è salita alla ribalta dei media anche internazionali? Non resta che verificare sul serio quanti siano i consensi: con schede di carta, non virtuali, in una libera consultazione senza etichette istituzionali.
Ma al di là di questo, i fatti di queste ore come quelli del passato segnalano un problema irrisolto: il gap tra consistenza socio-produttiva del Veneto, e la sua rappresentanza politica. E’ innegabile che la regione in Italia conti molto meno di quel che vale. E di questo sono in molti a portare le responsabilità, cominciando dalla Democrazia Cristiana veneta, che era il maggior serbatoio di voti dello scudo crociato nazionale, ma che non hai saputo portare a casa forme di reale autonomia e concreti riconoscimenti al suo ruolo. Una volta spiaggiata la balena bianca, l’ormai lunga stagione di un forzaleghismo egemone in Veneto si è rivelata comunque inconcludente: quando nei governi di veneti non c’era nessuno, e quando si è arrivati ad avere ben tre ministri. E pure le opposizioni si sono rivelate marginali, anche quando a Roma comandava un governo amico. Le spinte di fuga nascono da questa inconcludenza. Ma a loro volta sono destinate a finire nel vuoto. Alimentando la frustrazione dei veneti: un pessimo segnale.