Il destino ha voluto che mentre Francesco parlava di sacerdoti, vescovi e dintorni sotto la pioggia battente e fastidiosa di Roma io fossi baciata dal sole pugliese nell’aranceto di un’antica villa ottocentesca trasformata da oltre un secolo in seminario minore. Un luogo bello e abbagliante come solo certi edifici al sud sanno esserlo, un susseguirsi di archi e pietra bianca dove si fanno crescere quelli che potrebbero (il condizionale è d’obbligo vista la minore età) diventare i preti nel futuro prossimo venturo. Mangiando alla tavola apparecchiata come in famiglia, circondata da ragazzi che hanno l’età di mio nipote e che pure sembrano non conoscere l’indeterminatezza e l’inquietudine dell’adolescenza, confesso che anch’io mi sono domandata: “come cavolo gli è venuto in mente?”. 



Sì, “come hanno potuto anche solo ipotizzare a 15 o 16 anni che quello che forse oggi è il mestiere più difficile del mondo fosse per loro”. Più tardi ho visto anche il padre di uno dei ragazzini. E mi sono sorpresa a valutarlo, a cercare qualcosa di strano. Invece era un tipo assolutamente normale, un papà qualsiasi che prelevava il figlio per un passaggio veloce in famiglia prima della partenza per la gita scolastisca. Devo dire che sono stata a rimurginarci su, fino a quando non ho riletto la catechesi di papa Francesco dedicata, ieri, proprio al Sacramento dell’Ordine. Nel finale (come sempre, è quando conclude che Bergoglio assesta il colpo) aveva deciso di dire qualcosa che sembrava non seguire lo schema logico della riflessione: sebbene si fosse attardato a definire qualità e compiti del ministro ordinato, aveva saltato l’incipit, il Mistero della chiamata. 



Fattuale come sempre era partito dal sacramento, non dal prologo. Lì per lì non ci avevo fatto caso, ma davanti a quei visi brufolosi e limpidi, a quei corpi goffi per anime tese, a quel concentrato di aspettative e speranze, ho avvertito l’urgenza del richiamo Bergogliano: vale a dire “non ci sono accessi al sacerdozio”, non si “vendono” green card, l’iniziativa la prende un Altro. Il Signore chiama. Sceglie lui. Quei non più bambini-quasi uomini con cui ho spartito il tempo di un pranzo, che hanno sentito nel cuore la voglia di diventare sacerdoti, il desiderio di servire gli altri nelle cose di Dio, l’aspirazione a catechizzare, battezzare, perdonare, celebrare, curare e custodire, sono stati presi, pizzicati e tirati fuori. Se hanno sentito, anche in maniera confusa e provvisoria, qualcosa, questa cosa che chiamano vocazione, ebbene se l’hanno avvertita, è “Gesù che l’ha messa lì”. 



Un processo non facile di “discernimento” stabilirà se si è trattato di un equivoco o di un’azione di Dio, ma è certo che nell’incontro tra la libertà di quei ragazzi e l’invito del Signore si gioca la bellezza e la santità della Chiesa. Non deve essere facile stare accanto a quelle anime, e non invidio il mio giovanissimo amico rettore, che ha un compito da ansia e tremarella. E non bastano neanche due gocce di Rivotril per domare l’affanno e il senso di soffocamento che ti prendono quando provi a metterti nei panni di chi deve accompagnare questi giovani uomini sulla strada dell’ordine, sulla via che farà delle loro vite doni d’amore nel nome di Cristo. Se poi si presta attenzione anche al resto della riflessione papale si prenota direttamente un ciclo completo di psicoterapia comportamentale per abbassare il livello di stress. Perché chi dovrà pensare a fare di quei ragazzini dei buoni preti non potrà non tener conto del fatto che Francesco ha alzato l’asticella. 

Il sacramento che abilita all’esercizio del ministero affidato da Gesù agli Apostoli richiede di pascere le pecorelle (molto indisciplinate) secondo il Suo cuore. E il cuore di Gesù è fatto di amore allo stato puro. “Il sacerdote, il vescovo, il diacono deve pascere il gregge del Signore con amore” − ha detto Francesco − “se non lo fa con amore non serve”. I futuri sacerdoti che oggi frequentano il liceo o l’istituto tecnico, che pregano e attendono, che crescono e si preparano, devono essere prima di tutto educati all’amore. Devono comprendere che diventare prete non vuol dire acquisire uno status ma mettersi in uno “stato”. L’unica modalità possibile è il servizio. 

E se un giorno dovessero diventare vescovi, dovranno essere consapevoli che i balzi sulla scala gerarchica comportano l’abbassamento del proprio Io. Altrimenti il rischio sarà la mediocrità. Il peggior peccato per un Pastore, secondo Bergoglio, è la mancanza di passione per la Chiesa, la rinuncia alla propria santificazione. Ieri ha parlato di vescovi che non pregano, che non ascoltano la Parola di Dio, che non celebrano quotidianamente l’Eucarestia, che non si confessano regolarmente. Di presuli e sacerdoti che rinunciano ad alimentare il proprio ministero. E ha individuato in questi peccati il male della Chiesa attuale, quella “medietà” che fa perdere il senso del proprio servizio e la comunione con Cristo. Non so se davvero nella Chiesa ci siano vescovi così, sacerdoti sì. Ne ho incontrati alcuni. E ho provato pietà: non erano uomini felici. 

L’augurio per i ragazzini che ho incontrato nel seminario pugliese, in una giornata di sole, è che non tradiscano mai il proprio cuore, che non rinuncino mai alla bellezza, che non abbandonimo mai la croce e le gioia del servizio; che non smettano mai di desiderare la felicità.   

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