Due notizie contradditorie nella stessa giornata: plauso alla Gran Bretagna, per il via libera ai matrimoni gay. E commento sociologico-culturale per le statistiche che, sempre in Gran Bretagna, danno in continuo calo i matrimoni, tanto da far presagire, in tempi non lontani, la scomparsa del matrimonio come istituzione. Sindrome da Bridget Jones, la chiamano. Ovvero, i giovani non vogliono prendersi impegni, hanno paura di farlo, non credono sia possibile mantenerli. Il nesso qual è?
Forse dobbiamo riconsiderare la concezione dell’uomo, come l’uomo l’ha recepita, provata, assunta. E dobbiamo cambiare mente e linguaggio, che si basano sulla percezione sensibile di una diversità naturale, oggettiva, riconducibile ai caratteri sessuali, il maschile e il femminile. Ma resta il senso di uno straniamento: non solo perché per secoli e secoli ci è stato insegnato a usare la ragione secondo la potenzialità dei suoi fattori, a partire dall’esperienza. E l’esperienza impone ai sensi la realtà di uomini e donne, così come l’evidenza che le donne procreano, i maschi no, e sempre delle donne hanno bisogno, anche per mater-nità (si dice così!) surrogate. Il termine matrimonio ne deriva: implica la procreazione, la promuove, la sostiene, la tutela. Se non ci si vuol più sposare, è perché allora non si vogliono più fare figli. Eppure i gay chiedono il matrimonio: forse hanno una tenuta umana più solida, capace di contrastare la fragilità della sindrome sopracitata? Loro i figli li vogliono, e chiedono che la legge e la scienza seguano i loro desideri, poco importa se manipolando l’uomo, se stravolgendo la sua natura. È l’uomo che crea la natura, non viceversa: è l’uomo che si fa tale, l’uomo che si dà la vita, il sesso, la morte. Perché se si trattasse di diritti – a parte quelli della persona, che in Gran Bretagna sono uguali per tutti da tempo – nel Regno Unito godono anche di quelli che regolano le cosiddette “coppie di fatto”: sono così liberali e rispettosi delle diversità, questi inglesi, non come noi italiani, oppressi e condizionati dalla ridondante presenza della Chiesa cattolica! Grazie al progresso mentale, si dice, anche da quelle parti the times are changing, si crede, e seguiranno presto aperture al diritto inalienabile all’amore, sempre e comunque, ai figli, che non sono proprio persone finché non hanno a loro volta diritto a diventarlo scegliendosi la vita. Non proseguo, mi pare una posizione così irrealistica e deprivante per l’uomo.
Torno indietro invece a quella paura della stabilità, figlia sicuramente delle nostre società incerte. Non è vero: basterebbe ricordare società e tempi ben più provati da sconvolgimenti e miserie, quando tuttavia non si è mai smesso di sperare e puntare sul futuro. Perché mai i giovani, oggi, che come tutti i giovani di ogni epoca e luogo pongono l’amore al di sopra di ogni sogno, si accontentano di amori a termine? Perché abbassano il livello dei loro desideri alla loro debolezza?
Non è strano che si sia incapaci di fedeltà e tenuta, è strano partire già senza volere il “per sempre”, riconoscere un’incapacità strutturale e adeguarsi ad essa, esattamente il contrario di quello slancio che l’uomo sente vibrare in sé, ad ogni passo del suo crescere, l’opposto di quell’incrollabile fiducia nell’uomo che ha segnato la storia del pensiero occidentale.
L’amore aspira, anela a un per sempre. È il sottofondo di ogni capolavoro artistico, letterario, musicale, ma anche dei lucchetti a Ponte Milvio, di mille scritte sui muri, sui diari di scuola, di mille sms gettati al vento. Perché accontentarsi del poco, perché cedere alla nostra mancanza di tensione. A meno che il cedimento non sia soltanto all’istinto, che riduce l’amore al consumo del sesso; o al languore romanticoide, al palpito che subito sfuma e svanisce al mutare di stagione. Ma adeguarci alla nostra pochezza non ci renderà più felici. Nessuno in fondo cerca qualcosa di meno dell’infinito. Negare questa verità a se stessi è una condanna all’infelicità. Negarla ai giovani, raccontando loro menzogne, è un delitto.