La notte degli Oscar è passata già da qualche giorno, e, come sempre accade, tutto è ormai digerito. Abbondantemente digeribile. Come aveva detto Ellen De Generis nel suo pistolotto iniziale (ad onor del vero, insulso assai), o “12 Years a Slave” vince come “Best Picture”, o siamo tutti razzisti… Oltre 43 milioni di telespettatori (record dell’ultimo decennio) hanno seguito questo mare di ovvietà sfarzo, così lontano dalla nostra vita quotidiana da risultare – così sembra – molto più attraente della suddetta vita quotidiana. Un mondo “liberal & lussuoso”. Abiti irreali e sfolgorio di luci e scenografie, una presentatrice lesbica della prima ora, una serie di afro-americani sugli allori (i film saranno anche belli, ma certamente non si può correre il rischio di essere razzisti) e noiosissimi elenchi di persone da ringraziare con noiosissimi discorsetti al momento del ricevimento dell’ambita statuetta. Tranne uno. 



E quello no, quello senza alka seltzer non l’ha digerito quasi nessuno. E infatti quasi nessuno l’ha applaudito. E dire che si trattava dell’Oscar per migliore attore protagonista, per di più in un film incentrato sul dramma dell’Aids. Ma Matthew McConaughey ha detto le cose sbagliate, e le ha dette a braccio, senza tirar fuori dalla tasca quei foglietti stropicciati che tutti i candidati preparano con cura (per poi mangiarseli dalla rabbia e dall’invidia se vince qualcun altro). E quando uno parla a braccio sembra proprio che ci creda in quel che dice. 

“Confounding”, “semi-bizarre”, l’ha definito la stampa. Si capisce anche senza tradurre. Come hanno scritto in tanti, di qua e di là dell’oceano, ringraziare Dio in occasioni come questa è un po’ come prendere l’ombrello quando piove. Siamo nell’ovvio-che-più-ovvio-non si può. Ci sta anche ringraziare la famiglia, perché per quanto sia allo sbando resta sempre nell’immaginario collettivo il luogo dei buoni sentimenti. Ma McConaughey, col suo smaccato accento texano, è andato oltre. Ha detto che ci sono tre cose di cui ha bisogno nella vita: qualcosa verso cui alzare lo sguardo, qualcosa che lo faccia guardare al futuro, qualcosa da inseguire. Fin qui si poteva applaudire, niente di nocivo o destabilizzante. Solo che per spiegarle ha tirato fuori tre questioncine da far venire i brividi. Cos’ha detto? Ha detto che il Padre Eterno gli ha donato opportunità che non son certo frutto né delle sue mani né di quelle di nessun altro. Grazia, pura grazia. Ha detto che è un fatto scientifico che la gratuità ripaga. Ha detto che per quanto insegua la propria immagine, non sarà mai l’eroe di se stesso. Non sarà mai compiuto. In sostanza ha detto rivolto a questa sontuosa adunanza di persone di successo – ed ha ripetuto a se stesso – che la vita è nelle mani di un Altro, che quando combiniamo qualcosa è un miracolo, e che gratuitamente diamo perché gratuitamente riceviamo. 

McConaughey non è piaciuto perché non è questa l’aria che si respira nell’America d’oggi. Abbiamo saltato a piedi pari la soglia dell’ideologia collettiva per piombare in quella del singolo: che ognuno sia quel che vuole, si definisca da sé, si auto determini. La grande sfida è verificare se dipendere da qualcosa più grande di sé rende la vita più bella. 

McConaughey l’ha buttata lì, ma anche ci fosse piaciuto non serve a niente se questa sfida non la facciamo nostra. Non è una sfida per quelli di Hollywood, è la sfida per tutti gli uomini di tutti i tempi.