Curioso che nel giorno in cui Francesco dichiara, dalle pagine di un quotidiano, che dipingere il Papa come una sorta di superman, una specie di star, gli pare offensivo, l’accademia norvegese faccia sapere che proprio il pontefice argentino è tra i 278 nomi candidati al premio Nobel per la Pace. Scherzi da Berlicche. Quasi un dispetto fare del ritroso Bergoglio, “uomo che ride, piange dorme tranquillo”, un icona da medaglietta. Ma credo che di cose del genere dovremo aspettarcene molte. 



Invece il “Papa normale”, che ama fare il prete, ieri ci ha introdotti nella Quaresima, l’itinerario di quaranta giorni che conduce alla Pasqua. L’ha chiamato “tempo forte”, come molti prima di lui. Vale a dire tempo di cambiamento e di conversione. Un tempo per uscire dalle nostre oziosità, dalle abitudini stanche, “dalla pigra assuefazione al male che ci insidia”. Ecco, di tutte le caratteristiche dell’umanità varia che popola questo mondo, l’indolenza etica è la peggiore. Eppure tutti più o meno ne siamo contagiati. Anzi sembra essere la naturale qualità dell’uomo moderno. L’apatia al proprio e all’altrui destino. Così abituati al male che non solo non lo si combatte, ma lo si accetta come inevitabile dato di fatto. Neanche un sussulto di indignazione. Neppure lo spazio per il dubbio. Il male c’è, va accettato, l’apatia sembra l’unica strada per non lasciarsi travolgere. 



Francesco non ci sta. Non gli va giù che chi si dice cristiano possa “accettare passivamente” la miseria e il degrado dietro l’angolo dell’isolato, fuori dalla porta di casa, nel cortile affianco alla parrocchia. Non ci si può abituare al male. Ai barboni negli androni di marmo, ai barconi stracolmi di profughi, alla violenza sbattuta in faccia da schermi apparentemente innocenti. Eppure quando è stata l’ultima volta che abbiamo provato pietà per la moldava sul marciapiede o per la vecchia coperta di stracci che tira la sua casa su due ruote? Quando abbiamo sentito lo stomaco aggrovigliarsi per i corpi abbandonati nelle piazze che non ci appartengono? Quando abbiamo provato vergogna per il nostro meschino, seppur precario, benessere? 



Non è solo una questione di fatica, ma di compromesso con la propria impotenza. Pur di non dover fare i conti con la nostra incapacità a sostenere da soli la sfida della realtà, tacitiamo la coscienza, finendo per creare alibi. “Non puoi salvare il mondo” è la frase con cui si liquidano gli idealisti energici, quelli che sbattono la testa contro i muri dell’egoismo altrui. La grande bugia che serve a proteggere gli ignavi e i disperati. Perché serve Speranza per ricordarsi, in ogni istante, che il mondo è già stato salvato. 

È quello che ha detto ieri il Papa. Prendiamoci il tempo, quello quaresimale, per rendere “più viva la consapevolezza dell’opera redentrice di Cristo”. Viviamo questi giorni di conversione per “recuperare la capacità di reagire di fronte alla realtà del male che sempre ci sfida”. Ritroviamo la “gratitudine verso Dio” che è sempre la migliore risposta al “mistero stupendo” del suo amore. Non servono opere eclatanti, né crociate sociali, neppure la solidarietà micragnosa e deresponsabilizzante. Serve la riscossa di uomini e donne che non si rassegnano ad una società che pretende di fare a meno di Dio. 

Il gesto da cui parte Francesco è semplicissimo: il segno della Croce. Quel marcare il corpo che definisce il cristiano. Sentire sulla carne l’appartenenza ad un popolo, la generazione divina, la figliolanza liberante. “Insegnate ai vostri figli a fare il segno della croce”. Prima di toccare il cibo, davanti ad un cadavere esibito dallo schermo, passando per una chiesa o più semplicemente ogni qual volta il nostro cuore viene sfiorato dal male. 

Bergoglio ci ha ricordato la forza della Croce, la memoria del Figlio e la potenza del Padre. Nel nome del Padre è l’incipit di ogni rivoluzione e di ogni conversione. L’antidoto per non finire narcotizzati.

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