Manlio Sgalambro è morto ieri mattina all’alba, dopo un colpo di tosse e prima dell’arrivo dell’attesa primavera. È morto fra i suoi libri e le pagine sparse come arcipelaghi e sull’ultimo foglio di appunti, dentro un libro di Sklovsij, dice male dell’automatismo e del tran tran quotidiano. È morto nella sua casa in piazza Vittorio Emanuele con le sue figlie vicine e posto poi dentro una bara coi pizzi e il rosario in mano. Una ventilatore gli muove le ciglia e sembra che il filosofo desideri ancora dare colpi di staffile al pensiero. E in quella casa, dove lui non voleva cani e neppure bambini, sfilano i suoi amici. In alto un manifesto dedicato a Schopenhauer e una civetta impagliata, anche lei morta. 

Della morte Manlio Sgalambro parlava così spesso e con la parola la indagava. “Io appartengo al sistema solare. Il resto dell’universo non mi dice niente. Vago senza sapere dove. Il cielo è altrettanto confuso come un marciapiede di Calcutta”. Era un uomo tremendo, in verità e cercava con rabbia la verità delle cose e disprezzava. Disprezzava gli sciocchi sciolti e quelli al potere, quelli che scrivono e quelli all’università. Preferiva in certi casi il mondo dei semplici a quello dei sapienti. Offendeva con grazia e pure senza grazia. Ma questa la sua forza. Era così ribelle che non si era neppure laureato. Traduzioni in tutto il mondo dei suoi libri, conferenze e canzoni ma non si era mai voluto laureare. E neppure nessuno aveva osato dargliela ad honorem, un po’ perché oscurava tutti con la sua intelligenza e presenza scenica, un po’ perché comunque gliele avrebbe cantate. Già, cantate, con la canzone si era divertito molto, il palco lo infiammava di energia vitale. 

Così, quest’uomo che era rimasto in casa sua per anni a coltivare il suo ingegno e solo quello e poco gliene importava delle cose del mondo, finalmente era uscito a respirare un po’ di aria del continente insieme a Franco Battiato e anche di aria di gioventù. La gioventù gli mancava molto e così il tempo. Non voleva perdere un minuto del suo tempo in inutili conferenze e cene anche con donne belle. Sentiva che il tempo veniva meno. Ma non voleva essere consolato. Anzi detestava pure la consolazione e anche i filosofi che consolano, Seneca in testa. 

Eppure a questo “Mundo pessimo” era affezionato e negli ultimi anni lo guardava con una certa sua “tenerezza” e dalla finestra spiava la gente passare in piazza e parlare e ridere e bere la spremuta. Gli piaceva soprattutto d’estate. 

E anche raccontava della sua infanzia a Lentini e di un bombardamento che aveva visto a Catania in piazza dei Martiri e di un inquisitore del Cinquecento che si chiamava appunto come lui, Sgalambro. Del suo cognome, Sgalambro, andava fiero perché significa in calabrese “calabrone” e l’idea di emettere il ronzio di un calabrone, cioè un fastidio, gli piaceva. 

Gli piaceva dare fastidio. Così i colti strabuzzavano gli occhi quando lo vedevano sul palco a cantare con le ragazze. Così gli incolti strabuzzavano gli occhi quando diceva, per esempio, “tutto ciò che è e che non è, ma in simulacri, per scorcio, in ombre, ombre tremolanti come fiammelle, più fatte di buio che di luce”. Era un distruttore di certezze, anche religiose. Il Trattato dell’empietà è un colpo di spada all’idea di Dio. La morte del sole ha fatto disperare molti pensatori. Inizia con una citazione di Hegel “c’è molto movimento, ma è un movimento di vermi”. Manlio Sgalambro diceva che la chiacchiera è inutile, come lo squittio dei topi. Eppure parlava, parlava e soprattutto scriveva. 

Fino all’altro ieri, ormai su grandi fogli, con matite grosse perché la vista si era assottigliata e la mano non era più salda. Fino all’ultimo camminava nel corridoio di casa su e giù per non perdere il vizio del cammino. Per non perdere soprattutto la vita a cui teneva molto. Così è morto il filosofo e l’amico e il cantante e il poeta che voleva con il pensiero cambiare il mondo. Addio, Manlio, non ti posso dire arrivederci.