Nulla si vuole togliere alla nobile origine della giornata internazionale della donna, nata negli Stati Uniti il 29 febbraio 1909, che nel 1917 cambiò data e diventò 8 marzo. Quanti traguardi sono stati raggiunti dalle donne, che allora non votavano neanche. Il problema vero è che rischia di rimanere una data associata al numero di donne assassinate, escluse, odiate.
Ci sono 128 corpi di donne uccise di troppo, in questo 8 marzo 2014. Nonostante i proponimenti, gli incoraggiamenti, i provvedimenti, ogni anno muoiono sempre più donne, e sembra che non sia un trend solo italiano, a sentire Linda Sabbadini dell’Istat. Il fenomeno delle violenze domestiche è molto più esteso di quello che immaginiamo e si esaurisce nelle offese fisiche dopo un’escalation. L’uccisione è “solo” l’episodio più eclatante, il culmine di una serie di maltrattamenti a cui spesso la donna si abitua perché perpetrata da mariti, compagni, amanti e anche ex. Tutte persone “normali”, spesso senza turbe psichiche o dipendenze, non il killer disturbato di certi film. Non importa se l’uomo è stato già allontanato, diffidato e denunciato, guarda caso riesce sempre nel suo intento. C’è qualcosa che non funziona, qualcosa che si frappone tra l’urlo di aiuto che si leva da parte della vittima e l’arrivo delle forze dell’ordine, di chi deve tutelare e proteggere.
Il senso di solitudine di queste donne è enorme, eguagliato solo dalla paura e dal sentimento di impotenza. Molte non denunciano non solo perché hanno timore per la propria incolumità ma anche per la sfiducia che nutrono nel sistema. Sono convinte che le misure cautelative non saranno mai abbastanza per garantire la loro protezione. In molti casi hanno ragione.
Il problema non riguarda solo il rapporto di potere nella coppia, ma anche gli equilibri che la donna costruisce al di fuori di casa, nell’ambiente di lavoro.
E qui si apre un’altra voragine. La donna fondamentalmente ha un problema: si riproduce. Nella sua vita professionale esiste un prima e un dopo. Prima e dopo la gravidanza. Qui però bisogna fare un passo indietro e non parlare in termini di genere ma in termini più ampi, altrimenti si rischia di osservare solo un aspetto del problema, anche se grave come la discriminazione. Bisogna fare i conti con i conti e con la realtà del nostro paese. Se da una parte l’Italia è uno dei paesi più garantisti in fatto di gravidanza, è anche vero che nel passato le grandi aziende monopoliste (e maschiliste) venivano “influenzate” nelle assunzioni dal mondo politico, che era quasi esclusivamente appannaggio maschile.
Oggi, in termini generali, al di là dei comportamenti discriminatori veri e propri, le piccole e medie imprese spesso soffrono della scarsa competitività e solidità dovuta all’incertezza dell’attività produttiva, oltre che alla crisi del momento contingente, e assorbono con fatica, anche volendo, i cambiamenti interni dovuti alla maternità delle dipendenti.
Più facile tenere fuori le donne per far quadrare i conti. Più economico mandare avanti gli uomini, che possono avere anche dieci figli e continuare a fare carriera dando continuità all’azienda e contando su una compagna che sbroglia la matassa familiare. In questo senso le quote rosa non riducono il problema, lo acuiscono.
Per le imprese più grandi e solide il discorso può essere diverso: anche se i disagi della maternità sono gli stessi nel breve termine (sostituzioni, avvicendamenti, costi) la solidità economica dell’azienda consente delle politiche conservative di quelle che sono le preziose risorse interne, in questo caso le donne, che possono essere mantenute e motivate. In pratica, recuperano nel lungo termine i disagi causati dalla maternità. Negli ultimi quattro-cinque anni le cose sono migliorate, soprattutto nelle multinazionali, dove la donna è vista come una risorsa e non un peso, una personalità capace di tenere le fila mantenendo la propria femminilità, senza doversi “mascolinizzare” per avere credito dai colleghi.
Ma non sempre le cose vanno così, soprattutto al Centro-Sud, dove il tasso di lavoro femminile sommerso è molto alto.
Una soluzione molto gettonata al rientro dalla maternità è il demansionamento. Sei uscita responsabile, ora puoi accomodarti alla fotocopiatrice. Soluzioni come part-time e job sharing non sono popolari all’interno delle aziende italiane. Anche l’interim management, utilizzato all’estero per ricollocare persone con ottime competenze, in Italia viene usato per sistemare il bocciato di turno. La donna, al rientro, deve pagare uno scotto e ripartire da zero, per dimostrare di essere rimasta produttiva senza sdilinquirsi. Ripartire da zero quando spesso la donna, anche nei paesi in via di sviluppo, è più preparata: all’università, nei concorsi, sul lavoro. Ma è pagata meno e deve combattere con l’eterna carenza dei servizi. Quante donne possono contare sul supporto del compagno nella condivisione della routine domestica? In Nord Europa il congedo parentale da parte dei padri è normale, in Italia quasi sconosciuto. I pochissimi che osano sono derisi dai colleghi. Se non si hanno dei nonni da schiavizzare o non si vogliono devolvere tre quarti del proprio stipendio a una baby sitter, una donna ha poca scelta. Spesso i nidi e gli asili pubblici sono pieni o insufficienti. Ci sono rari casi di asili aziendali: le madri possono passare la pausa pranzo con i figli o comunque saperli vicini in caso di emergenza. Purtroppo anche questa soluzione prevede le spalle larghe dell’azienda, l’investimento sul capitale umano e una mentalità di supporto e rispetto.
Il rispetto non si può imporre per legge, è qualcosa che viene tramandata di padre in figlio, dovrebbe far parte dell’educazione di ogni individuo. Entrambi gli aspetti, violenza sulle donne e incapacità a valorizzarle professionalmente, sono figli dello stesso peccato. E se da un lato i provvedimenti a livello legislativo possono essere varati e attuati rapidamente, dall’altro è difficile provocare in tempi brevi il cambiamento culturale di cui c’è bisogno per ridimensionare gli atteggiamenti discriminatori nei confronti della donna. E questo ha a che fare con il senso di comunità che abbiamo come individui e, soprattutto, come genitori, quando educhiamo i nostri figli maschi, insegnando loro che le femmine sono diverse e portano delle caratteristiche e delle competenze che, messe insieme alle loro, possono fare la differenza.
La vera parità ci sarà quando tutti avremo riconosciuto nelle nostre differenze il vero valore. Allora potremo tornare a festeggiare, possibilmente con un fiore-simbolo che profumi.